Archivi Blog

Amore: sentimento, arte e scienza.

A mio avviso, le coppie (ma, io direi, anche le famiglie intere: quindi, genitori e figli) farebbero bene a dedicare uno spazio della settimana (un paio di ore, ad esempio) a quella che – quando stavo da ragazzo in Azione cattolica – veniva definita “la revisione di vita”.

Che, in questo caso, applicata a questa situazione, sarebbe un esame di coscienza dello stato delle relazioni all’interno della coppia, innanzitutto, e all’interno della famiglia, laddove in questa esperienza fosse coinvolta l’intera famiglia.

Un esame di coscienza delle cose che non sono andate nell’arco della settimana, ma anche un’affermazione/esternazione delle cose che si desidererebbe accadessero tra marito e moglie e tra genitori e figli.

So bene che all’acquisizione di questa (per me) “sana abitudine” si oppone l’argomento che l’amore – che naturalmente regna (o, meglio, dovrebbe regnare) all’interno di una coppia e di una famiglia – basta e avanza per affrontare e risolvere tutti i problemi.

Ma io sono fermamente convinto che questo argomento sia infondato; non tanto perché non creda che sia l’amore la soluzione dei problemi di coppia e delle famiglie, ma perché ritengo che l’amore non sia affatto un sentimento (solo) naturale e spontaneo.

Ma che l’amore sia un sentimento che nasce, sì, spontaneo e in modo istintivo e naturale (altrimenti manco si potrebbe parlare di amore in una relazione), ma che questo sentimento vada poi coltivato e tenuto in vita nel corso degli anni, per evitare che scada nella routine e che quindi, prima o poi, sfiorisca o addirittura si estingua.

Ma in che modo si può coltivare e tenere in vita nel tempo l’amore? Facendo ricorso ad opportuni accorgimenti; tra i quali quello dell’autocoscienza e del confronto – amorevole, ma allo stesso tempo franco e trasparente – mi sembra il principale.

L’amore, insomma, non è solo un sentimento, un affetto, un moto del cuore, ma è anche un’arte, che si apprende e che va esercitata, con cura, interesse e costanza, come ha scritto Fromm in suo splendido libretto del 1956.

In certi casi e momenti, anzi, l’amore richiede addirittura un sapere: il sapere, ad esempio, che mette a nostra disposizione la psicologia, specie la psicoanalisi; l’amore è, quindi, anche una scienza, oltre che un’arte.

© Giovanni Lamagna

Tenersi il problema o risolvere il problema?

Nelle cose della psiche la comprensione, cioè il diventare consapevoli di un problema e delle sue cause/origini non garantiscono automaticamente la sua soluzione, come una certa psicoanalisi sembra sostenere.

Spesso chi è afflitto da un problema preferisce conviverci, per una sorta di abitudine, di assuefazione, di pigrizia, che gli garantisce quella sicurezza che proprio la soluzione del problema, invece, minaccia di mettergli in crisi.

© Giovanni Lamagna

Comprensione e soluzione di un problema

Nelle cose della psiche la comprensione di un problema non è e non garantisce automaticamente la sua soluzione.

Spesso chi è afflitto da un problema psicologico preferisce conviverci, per una sorta di abitudine, di assuefazione, di pigrizia, che gli garantisce quella sicurezza che la soluzione del problema, invece, minaccia di mettere in crisi.

Preferisce (è tipico delle nevrosi gravi) tenersi il problema, anziché risolverlo.

Anche quando la soluzione (ad uno sguardo evidentemente superficiale) sembra a portata di mano.

© Giovanni Lamagna

Paura, coraggio e temerarietà.

Nell’isola di Creta il re Minosse aveva chiesto a Dedalo di costruire il labirinto per il Minotauro.

Avendolo costruito e, quindi, conoscendone la struttura, a Dedalo e a suo figlio Icaro fu preclusa ogni via di fuga da Creta da parte di Minosse, poiché questi temeva che ne fossero svelati i segreti.

Dedalo e Icaro vennero perciò rinchiusi nel labirinto.

Per scappare, allora, Dedalo costruì delle ali con delle penne e le attaccò ai loro corpi con la cera.

Malgrado gli avvertimenti del padre di non volare troppo alto, Icaro si fece prendere dall’ebbrezza del volo e si avvicinò troppo al sole (nella mitologia Febo).

Il calore fuse la cera, facendolo cadere nel mare, dove in balìa delle onde Icaro trovò la morte.

In questo mito, come in tutti i miti, ci sono varie simbologie e metafore, che possono essere interpretate, anzi è interessante e persino utile interpretare.

La prima metafora mi sembra questa. A volte noi diventiamo prigionieri dei nostri stessi progetti o dei nostri segreti. Così come Dedalo diventa prigioniero del labirinto da lui costruito.

Forse questo capita quando diventiamo prigionieri e succubi della dimensione mentale del nostro Sé.

Che indubbiamente svolge la sua funzione, è utile (anzi indispensabile) all’esistenza. Ma diventa una prigione quando è l’unica dimensione che ci guida, quando ad essa affidiamo totalmente il destino delle nostre scelte.

Allora sentiamo (possiamo sentire) il bisogno di scappare, di liberarci da una tale prigione. E per questo ci costruiamo delle ali.

Che qui rappresentano, a mio avviso, sotto forma simbolica, i nostri desideri non ancora consapevoli, le nostre fantasie, le nostre aspirazioni, le nostre “utopie”.

Queste ali sono indispensabili per evadere da una condizione routinaria, abitudinaria, eccessivamente rassicurante, che senza lo spirito di avventura (rappresentato dal volo) diventerebbe mortifera.

Ma qui sopravviene il rischio opposto a quello rappresentato dalla routine della prigionia: il rischio dell’osare troppo.

Lo spirito di avventura ci mette sempre in una situazione di precarietà, di pericolo, qui rappresentati dalle ali di cera.

L’uomo avventuroso non deve mai trasformarsi in avventuriero. Una cosa è il coraggio, altra cosa la temerarietà.

Icaro, al contrario del padre, uomo coraggioso ma allo stesso tempo prudente, sfida i limiti imposti dalla natura e da coraggioso diventa temerario, imprudente: vola troppo in alto, va dove non sarebbe dovuto andare, conoscendo la sua condizione, si avvicina troppo al sole (simbolo di una meta, un obiettivo non realistici) e quindi si autodistrugge.

Questa fine è simboleggiata dalla metafora della caduta in mare.

Per concludere, io penso, questo mito ci vuole insegnare che il coraggio è una virtù indispensabile, se vogliamo uscire dalla depressione a cui ci condannerebbe una vita senza audacia, senza guizzi, senza immaginazione, senza fantasia, senza ardore.

Ma, allo stesso tempo, ci dice che l’imprudenza, le velleità prive di ogni base razionale, sono altrettanto dannose dell’ignavia, cioè della mancanza di coraggio.

La virtù, come ci insegna il vecchio Stagirita, sta nel giusto mezzo.

Nel caso di cui abbiamo parlato finora sta nel coraggio. Che si situa giusto a metà tra la paura infondata e paralizzante e la temerarietà narcisista e delirante.

Giovanni Lamagna

Sulla nonviolenza.

Un’amica mi chiede: “L’agire non violento è dato dal carattere o dal temperamento? Il reagire non violentemente è comportamentale, caratteriale, di convenienza, pusillanimità o cos’altro?”

Sono domande interessanti, alle quali vorrei provare a rispondere.

L’atteggiamento nonviolento non è certo un dato temperamentale. Il temperamento è, infatti, qualcosa con cui si nasce, è legato ai geni.

Ora (per me) non si nasce nonviolenti, non si è tali per natura congenita. Piuttosto, penso, noi nasciamo aggressivi. Quindi per natura o, meglio, per istinto siamo violenti. Alla violenza siamo portati a reagire con la violenza. Basta vedere i bambini e i loro comportamenti.

La nonviolenza è, invece, una scelta di vita a cui ci si educa. Nonviolenti si diventa, non si nasce.

La nonviolenza, però, può arrivare a rappresentare un dato del carattere, quando essa è una virtù (nel senso aristotelico del termine), quando cioè è diventata un’abitudine, ovverossia un modo abituale, quasi spontaneo e naturale del comportamento di una determinata persona.

Quando io normalmente mi comporto in maniera non violenta, allora si può dire che la nonviolenza è entrata a far parte del mio carattere. Che, come tutti sanno, è una cosa diversa dal temperamento.

Se io, invece, mi comporto in maniera non violenta non per una scelta e un sentire profondi, ma per convenienza o, addirittura, per pusillanimità, allora non mi posso definire affatto un nonviolento. Sono semplicemente un opportunista o un vigliacco.

La nonviolenza (quella di Gandhi, quella di Lanza del Vasto, quella di Aldo Capitini, tanto per intenderci) non ha nulla a che fare con la convenienza e con la pusillanimità.

Il nonviolento non è uno che si nasconde perché gli fa comodo E nemmeno uno che evita il conflitto, perché gli fa paura.

Il nonviolento autentico guarda in faccia l’ingiustizia e la combatte. Pratica, dunque, spesso il conflitto, non lo seda né tantomeno lo elude. Ma lo fa senza ricorrere alle armi (reali o metaforiche) della violenza.

Semmai il nonviolento espone con coraggio il suo corpo e il suo spirito alle offese della violenza altrui. Quando riceve uno schiaffo, porge l’altra guancia, come consiglia il Vangelo.

E non per ignavia o passività. Ma perché, lucidamente e consapevolmente, intende interrompere con il suo comportamento nonviolento la spirale senza fine di violenza che, con una scelta diversa, inevitabilmente si innescherebbe.

Giovanni Lamagna