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Recensione del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino

Ho appena visto l’ultimo film di Paolo Sorrentino, “E’ stata la mano di Dio”, e dico subito che mi è piaciuto: è un bel film, senz’altro un film d’autore!

Certo Sorrentino non è Fellini, anche se al regista riminese chiaramente e dichiaratamente si ispira, per cui è quasi impossibile non paragonarlo col mostro sacro, suo mentore virtuale.

Sorrentino indubbiamente non ha il genio magico e, diciamolo pure, inimitabile di Fellini, però è certamente una persona molto interiore, che sa guardarsi dentro e, come tutte le persone interiori, ha perciò molte cose da dire.

Non lo sa fare nel modo visionario, incandescente, seduttivo, scoppiettante e incantatore di Fellini, ma lo sa fare sicuramente con buona maestria e padronanza, sia nel costruire le storie sia nel renderle sul grande schermo.

Questo film – tanto per restare all’accostamento con Fellini – è un vero e proprio Amarcord sorrentiniano. Così come “La grande bellezza” fu la versione sorrentiniana de “La dolce vita” felliniana.

L’idea da cui nasce è, infatti, probabilmente la stessa da cui originò il meraviglioso film di ricordi del regista riminese: il desiderio/esigenza di ripercorrere la propria adolescenza, di rivisitare i luoghi in cui essa si svolse, di ritrovare persone, episodi, atmosfere, dolori, tragedie, che la caratterizzarono.

Quasi per fare i conti con quella fase della vita, prolungatasi forse fin troppo a lungo, e per uscirne definitivamente, aprendone una nuova.

E, come il film di Fellini ovviamente era ambientato a Rimini, così l’Amarcord di Sorrentino non poteva che essere ambientato a Napoli.

Due contesti evidentemente molto diversi, immerso spesso nella nebbia più fitta il primo, estremamente luminoso e solare il secondo; entrambi però accomunati dall’allegria quasi ridanciana, dal gusto per lo scherzo, anzi per lo sberleffo, dal piacere di godere della sensualità dei corpi.

Fatta questa premessa, evidenzierei che il film di Sorrentino si divide in due tempi nettamente distinti tra di loro, quasi contrapposti.

Le caratteristiche principali del primo sono la risata, la gioia di vivere, la convivialità allegra. Nel corso del primo tempo si ride molto, sembra quasi di assistere ad un film comico; come d’altra parte si rideva molto nell’Amarcord felliniano.

Ma già l’ultima scena del primo tempo preannuncia un radicale cambio di registro, che si affermerà poi pienamente nel secondo tempo; alla commedia (spesso comica) subentrerà prima il dolore acuto e poi la vera e propria tragedia.

La svolta viene annunciata dal pianto e dal tremore isterico della madre (Teresa Saponangelo) del giovane Fabio (Filippo Scotti: Sorrentino adolescente), che scopre il tradimento (in corso forse già da svariati anni) del marito (Toni Servillo) con una sua collega di ufficio.

E si realizza pienamente con la scena dei due genitori di Fabio, che dopo la breve separazione, dopo essersi riappacificati, quando hanno coronato finalmente il loro sogno (molto piccolo-borghese) di avere una casa in montagna (a Roccaraso), accendono il camino e sprovvedutamente vi si addormentano davanti, seduti sul divano, mentre l’uno legge “Un uomo” di Oriana Fallaci e l’altra sferruzza a maglia; respirano così l’aria che diventa sempre più velenosa per le esalazioni del monossido di carbonio e vanno incontro ad una tragica e prematura morte.

I tre figli riescono a salvarsi dalla stessa sorte per puro miracolo, perché non hanno accompagnato i genitori (come pure questi avrebbero desiderato) nel weekend a Roccaraso: Marchino (Marlon Joubert), perché tutto preso dal nuovo amore per una ragazza, Daniela (Rossella Di Lucca), perché vive isolata in un mondo tutto suo (e, infatti, nel film compare pochissimo), infine Fabietto, perché non voleva perdersi la partita Napoli-Empoli, dove avrebbe visto giocare il suo idolo Diego Armando Maradona, nuovo acquisto del Napoli.

Questo di Maradona è uno dei capitoli più importanti dell’adolescenza di Fabio/Sorrentino e, per conseguenza del film; uno di quelli sul quale si è maggiormente costruito l’immaginario del giovane adolescente; Maradona è visto come una specie di divinità calata in terra, che compensa le frustrazioni di un’intera città e ne realizza i sogni a lungo, troppo a lungo, repressi, perché considerati impossibili.

Emblematica, quasi onirica, la scena in cui il ragazzo, mentre attraversa la strada, vede Maradona in un’auto ferma ad un semaforo rosso: il suo sguardo resta paralizzato per svariati secondi, i suoi occhi non credono a quello che stanno vedendo, e con in suoi quelli della piccola folla che ha ricevuto la grazia di una simile visione.

Come non riandare con la memoria alla scena felliniana dei riminesi che a bordo delle loro barche si spingono al largo per assistere nel buio della notte e col mare mosso al passaggio luccicante e favoloso del transatlantico Rex?

L’altro personaggio molto significativo dell’adolescenza di Fabio-Sorrentino è la zia Patrizia (Luisa Ranieri), sorella della madre, donna di straordinaria e prorompente bellezza, che accende le fantasie e le pulsioni erotico-sessuali del giovane ragazzo e di quelle del fratello Marchino.

Patrizia è una bellissima donna, ma anche estremamente frustrata, sia perché non riesce a rimanere incinta, sia perché vive con un marito, Franco (Massimiliano Gallo) che spesso e volentieri la riempie di botte; per questo dà spesso in stranezze.

Emblematica la scena della famiglia allargata ai numerosissimi parenti, in gita su un grande gozzo al largo della penisola sorrentina, quando Patrizia, col massimo candore e allo stesso tempo massima spudoratezza, si toglie tutti i vestiti di dosso e si stende completamente nuda, meravigliosamente nuda, sulla tolda della barca e tutti gli astanti la guardano allibiti e allo stesso tempo desideranti.

Come non riandare anche qui ad una delle scene madri dell’Amarcord felliniano: quella in cui la tabaccaia prosperosa e sensuale alla sera, prima sella chiusura, fa entrare nel suo negozio i ragazzi del borgo che sono soliti guardarla sbavanti e pieni di desiderio, abbassa la saracinesca e mostra loro, seduttiva e complice, le sue enormi, debordanti tette?

Patrizia è per Fabietto l’altro mito della sua adolescenza, l’unico che può competere nel suo immaginario sognante con quello di Maradona.

La morte tragica di Saverio e Maria segna, come una ferita non più rimarginabile, la vita dei tre figli, in modo particolare quella di Fabietto, che al contrario del fratello maggiore, Marchino, il quale intende darsi alla bella vita per rimuovere il dolore per la perdita dei genitori, non se ne fa una ragione, non riesce ad allontanare da sé le tracce del trauma vissuto.

Si rifugia così nel mondo dell’immaginario, che gli sembra senza ombra di dubbi preferibile alla realtà che egli definisce “scadente”. E in questo modo dentro di lui affiora un poco alla volta e infine si manifesta chiaramente la vocazione a fare il regista di film.

In questo suo percorso di (parziale) elaborazione del trauma (la elaborazione definitiva avverrà forse proprio con la costruzione e realizzazione di questo film: ecco il suo senso e la sua motivazione di fondo!) lo aiutano quattro figure significative.

1. La zia Patrizia, che non solo, come abbiamo già visto, è stato il primo oggetto dei suoi ardori erotici e sessuali, in quanto incarnazione stessa, sublime, della femminilità e dell’erotismo; ma è anche colei che incoraggia subito, appena Fabio glielo rivela, e con grande forza il suo sogno di diventare un autore di film.

2. Armando (Biagio Manna) un giovane contrabbandiere (Fabio lo incontra per caso allo stadio e con lui familiarizza condividendo il tifo per Maradona), che lo introduce in un mondo per lui (cresciuto in un ambiente piccolo borghese) completamente altro, quello della camorra e della violenza, alternata però anche a grande generosità e persino tenerezza.

3. La baronessa Focale (Betti Pedrazzi), una signora anziana, nobile decaduta, dall’aria solo apparentemente altera e distaccata, che abitava nello stesso palazzo ed era di famiglia in casa Schisa.

Che, quando si rende conto del momento molto difficile che sta attraversando Fabio, con un pretesto lo attira a casa sua e con modi molto garbati ed estremamente seduttivi, lo introduce ai misteri del sesso: la prima volta di Fabio!

E’ questa una delle scene più sexy e conturbanti del film, paragonabile e forse addirittura superiore a quella della zia Patrizia completamente nuda sulla tolda della barca davanti ad un pubblico di spettatori che la guardavano carichi di stupore e meraviglia.

Lì c’era il trionfo solare e spettacolare della bellezza fisica di Luisa Ranieri (zia Patrizia), esaltata dalla luce e dalla natura, con la monta ovvia del desiderio degli astanti maschili, in particolare di Fabio e di suo fratello Marchino, e forse persino l’invidia delle astanti femminili.

Qui, invece, si realizzano – nella penombra di una camera da letto e nel tete a tete – la celebrazione delle arti seduttive, affinate con gli anni e con l’esperienza, di un’anziana signora e il rito di iniziazione al sesso di un giovane, che fino ad allora lo aveva solamente fantasticato e, quindi, si mostra timido e imbranato.

Anche qui come non associare la scena dell’anziana baronessa che seduce e inizia al sesso il giovane Fabio a quella felliniana della splendida Gradisca che maliziosamente attizza prima e poi svezza, anche se solo con un bacio, i giovani adolescenti riminesi che sbavavano per lei?

4. Infine, Antonio Capuano (Ciro Capano), un regista napoletano, un po’ di nicchia, che all’inizio strapazza violentemente il giovane Fabio, che gli ha confidato il suo desiderio di diventare regista cinematografico, come per metterlo alla prova e saggiare l’autenticità della sua vocazione.

Ma poi si addolcisce, intenerisce e gli dà persino alcuni consigli, il più importante dei quali mi pare è “Non disunirti!”.

Che io ho interpretato così: non perdere i contatti con le tue radici, quindi con la tua famiglia, con la tua città di origine, con i simboli e i miti che hanno segnato la tua adolescenza, con il tuo dolore di fondo; perché è da lì che potrai ricevere la linfa che alimenterà la tua creatività, le cose che vorrai dire e tradurre in immagini.

Il film si conclude (anche qui sulla falsariga dell’Amarcord felliniano) con la scena di Fabio che viaggia in treno, direzione Roma, per inseguire il suo sogno di fare il regista.

E in sottofondo si ascolta la famosa canzone di Pino Daniele “Napule è”, come a dire che Fabio lascia la città che lo ha visto nascere e crescere, ma non si “disunisce”: le sue radici rimangono a Napoli e daranno linfa continua alla sua creatività artistica.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Loro 1” di Paolo Sorrentino.

Ho appena visto la prima parte dell’ultimo film di Paolo Sorrentino “Loro”, liberamente ispirato alla vicenda umana e politica di Silvio Berlusconi.

Non posso dire che mi è piaciuto, non posso dire che è un bel film. Posso dire, però, che è un film che va visto, è un film che mi ha intrigato.

Questa prima parte dura 104 minuti. Lo dico, perché per un buon 90 minuti è rivoltante, provoca un sentimento di rigetto, ripugnanza, ripulsa. Negli ultimi 10/15 minuti, invece, sfiora addirittura la tenerezza e quasi commuove.

Il film è liberamente ispirato alla vita di Silvio Berlusconi: la scritta iniziale che precede l’avvio delle immagini ci tiene a evidenziarlo. Ma la sostanza della vicenda umana e politica di Berlusconi vi è perfettamente narrata nella sostanza.

“Tutto documentato. Tutto arbitrario”: ci dice Sorrentino, citando la frase di Manganelli.

Nel film viene descritto un Berlusconi (Toni Servillo) quasi pensionato. Che ha appena perso le redini del governo, conquistato dal centro sinistra. Ma resta, ovviamente, un uomo di grande potere economico e politico.

Circondato da uomini senza scrupoli, che lo venerano esteriormente, mentre cercano (almeno qualcuno ci prova) di fargli le scarpe ed assumerne l’eredità.

In ogni caso cercano di sfruttarne il potere e la ricchezza, per guadagnarne a loro volta.

In questa prima lunga parte del film fondamentale è il ruolo svolto dal personaggio interpretato da un grande Riccardo Scamarcio, Sergio Morra, uomo spregiudicato, che facendo leva sulle debolezze da vizioso erotomane del leader di Forza Italia si mette in testa di avvicinarlo per proporgli le visite di ragazze rampanti disposte a tutto pur di entrare nelle grazie del Silvio nazionale.

Questa prima parte del film è, dunque, molto giocata sull’intreccio sesso/potere. E mostra molto bene come il sesso possa essere utilizzato quale arma di seduzione e quindi di potere. E come il potere sia uno strumento a sua volta di seduzione, in grado di procurare sesso facile, anche se a prezzi (in denaro e favori) elevatissimi.

E’ la parte del film che, come dicevo prima, provoca disgusto e rigetto: sia di fronte al sistema di corruzione politica dilagante, sia di fronte al consumo di sesso orgiastico a fini di semplice utilizzo del potere, senza alcuna forma vera e disinteressata di relazione benché minima.

Per questo gli ultimi dieci minuti del film sfiorano la tenerezza. Perché vi si mostra un Berlusconi lontano dalle stanze del potere romano, in buen retiro in Sardegna, con la moglie e i nipoti, ai quali sembra sinceramente legato.

Per carità, è sempre il Berlusconi becero, incapace di condividere gli interessi culturali della moglie (Elena Sofia Ricci), accanita lettrice (di Saramago).

E’ il Berlusconi che ama le canzoni napoletane (non certo le migliori) cantate dal suo chansonier preferito Mariano Apicella (Giovanni Esposito).

E’ il Berlusconi che parlando con il nipote adolescente si manifesta in tutto il suo cinismo di uomo potente e spregiudicato. “La verità è frutto del tono e della convinzione con cui la affermiamo”: in sintesi è questo l’insegnamento che cerca di trasmettere come nonno al ragazzo.

E però è comunque un Berlusconi che, approfittando del periodo dorato delle vacanze e del bellissimo contesto naturale che lo circonda (la splendida villa in Sardegna), cerca di recuperare il rapporto in crisi con la moglie Veronica.

E sembra esserci quasi riuscito. C’è un momento in cui i due si allontanano dall’enorme yacht su cui sono ospiti e fanno una passeggiata da soli con una moto d’acqua. Questa ad un certo punto si blocca in mezzo al mare: i due restano abbracciati e ripensano ai momenti iniziali del loro primo incontro.

C’è una canzone che poco dopo fa da sottofondo musicale alla scena finale di Silvio e Veronica che si raccontano e sembrano aver recuperato un po’ dell’antica intimità perduta: Fabio Concato che canta “Una domenica bestiale”, la canzone che avevano ascoltato la prima volta che avevano ballato insieme e si erano dati un bacio.

In lontananza si vede Apicella che li guarda deluso e un po’ mortificato.

La scena sembra un po’ la metafora del rapporto ritrovato. Ma qui il film si interrompe.

Il seguito alla seconda parte, che uscirà tra pochi giorni.

In conclusione.

Che ha voluto dire Sorrentino con questo film? Da quale suo bisogno interiore esso è nato?

A me sembra che il film nasca dalla curiosità di indagare innanzitutto un personaggio (“Lui”, come viene chiamato dai suoi “devoti”), che, al di là del giudizio (umano e politico) che se ne possa avere (e quello del regista – si intuisce – non è affatto positivo e benevolo), ha indubbiamente avuto un ruolo importantissimo, anzi fondamentale nella storia economica, sociale, culturale e politica italiana (soprattutto) degli ultimi 25 anni. Un uomo, quindi, dotato di un indubbio (anche se ovviamente del tutto particolare) carisma.

Il film si propone poi di indagare (anzi all’inizio si propone di fare soprattutto questo) una parte della società italiana, profondamente amorale (la figura del faccendiere tarantino Sergio Morra e quella del ministro-poeta, interpretata mirabilmente da Fabrizio Bentivoglio, ne sono la metafora perfetta), disposta a tutto pur di conquistare potere e sesso (non si capisce bene se dando la precedenza al sesso o al potere): il sesso attraverso il potere e il potere attraverso il sesso.

Non a caso il film si intitola “Loro”. Loro sono tutti coloro che circondano Silvio Berlusconi, sono la sua corte, che non si capisce bene fino a che punto si rispecchiano in lui, si riconoscono in lui, vorrebbero essere come lui, e fino a che punto lo utilizzano, lo sfruttano e sono capaci e disposti anche a ingannarlo e tramare contro di lui, pur di raggiungere la sua stessa ricchezza, il suo stesso potere, la sua capacità di godimento (sessuale) sfrenato e senza limiti.

Il film nasce, dunque, a mio avviso dal bisogno-desiderio del regista (e dell’altro sceneggiatore Umberto Contarello) di raccontare la vicenda umana e politica di un personaggio, che è stata, però, (e, per certi versi, è ancora) l’autobiografia di un’intera nazione o, perlomeno, di una parte consistente di essa.

Anzi forse l’intento principale del regista è soprattutto quello di raccontare l’Italia di fine secolo XX e inizi secolo XXI. Come a dire: Berlusconi è la perfetta metafora dell’Italia di questo periodo storico. Non a caso (ripeto) il film si intitola “Loro” e non “Lui”, come ci si poteva aspettare, visto che il film è (apparentemente) incentrato sulla figura del Berlusca.

E’ riuscito Sorrentino a realizzare il suo intento? A giudicare questa prima parte del suo film (che non potrà essere valutato compiutamente senza aver visto anche la seconda parte, in uscita il 10 maggio prossimo), a mio avviso, c’è riuscito abbastanza. L’Italia che egli voleva descrivere è stata da lui guardata con una specie di lente di ingrandimento e con occhio spietato. E, a mio giudizio, ne esce a pezzi. Addirittura (forse) peggio del signore-mito nel quale essa si è rispecchiata in questi ultimi 25 anni. Particolare questo sul quale si potrà discutere e che si potrà anche non condividere: è, infatti, la parte del film più opinabile.

In ogni caso non mi pare ci siano state indulgenze da parte di Sorrentino né nei confronti dell’una né nei confronti dell’altro. Il giudizio implicito che se ne ricava è spietato e severo: basta guardare dentro di sé, ai sentimenti di rigetto, ripulsa e ripugnanza che il film provoca. Ma è, appunto, un giudizio implicito, espresso con eleganza e misura dall’autore, senza condanne moralistiche. Lo spettatore se lo forma, a sua volta, da solo, senza che nessuno (apparentemente) lo abbia guidato o indotto: l’autore si è semplicemente limitato a descrivere i fatti, la realtà (per quanto, in parte, ma solo molto in parte, elaborata e trasfigurata).

E’ riuscito il film dal punto di vista estetico? A mio avviso, sì. Sorrentino indubbiamente lo conduce con la solita grande padronanza tecnica. I contenuti non sono gradevoli, quindi il film non può piacere perché racconta una storia che piace. Ma sono raccontati con grande realismo e quindi in maniera che a me è risultata efficace. Alla fine il risultato comunicativo che Sorrentino voleva raggiungere è stato raggiunto. E in un prodotto artistico questo è ciò che conta.

Giovanni Lamagna