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Ci sono sacrifici e sacrifici!

Ci sono sacrifici (nel senso di dolori, fatiche…) che sono passaggi obbligati, se vogliamo raggiungere determinati obiettivi: non li possiamo evitare, fanno parte del nostro percorso di vita, sono intrinsecamente collegati agli scopi che ci siamo dati.

E ci sono sacrifici, invece, che ci imponiamo da soli, come una forma di espiazione per i nostri sensi di colpa; a volte legati a nessuna colpa reale, ma ad una colpa che percepiamo come tale, che qualcuno da fuori ci ha spinto a considerare tale.

I sacrifici del primo tipo, oltre che ineludibili, sono anche funzionali alla nostra crescita umana in senso lato; fisica, emotiva, intellettuale, spirituale.

Quelli del secondo tipo, invece, sono del tutto inutili; faremmo bene ad evitarceli, servono solo a deprimerci, in certi casi possono addirittura distruggerci.

© Giovanni Lamagna

Psicologia del profondo e psicologia dell’altezza

Ha ragione Victor Frankl: dovrebbe esistere non solo una “psicologia del profondo”, ma anche una “psicologia dell’altezza”.

La prima esiste già; è la psicoanalisi, la quale ha come obiettivo di portare il paziente (o cliente o interagente) a intercettare il suo inconscio (che sta appunto nel profondo della psiche) per portarlo alla superficie, alla luce; rendere, insomma, l’inconscio (cioè il rimosso) conscio.

Per dirla con Freud, dovrà operare perché laddove c’era l’Es (cioè l’inconscio, l’inconsapevolezza) sopravvenga l’Io (cioè il conscio, la consapevolezza).

La “psicologia dell’altezza” si dovrebbe occupare, invece, di elevare l’uomo, l’individuo, la persona che vi viene in contatto; aiutandolo a scoprire le sue mete, le sue finalità, i suoi scopi, i suoi ideali; in altre parole la sua vocazione e la sua visione del mondo.

Questa “psicologia dell’altezza”, di cui parla Frankl, a mio avviso, non è molto diversa dalla “consulenza filosofica”, di cui parla Achenbach.

O dalle pratiche spirituali di cui si sono avuti innumerevoli esempi nella storia dell’umanità e che di solito si apprendono al seguito di qualche Maestro.

Ovviamente le due psicologie non sono rigidamente separabili. Anche se la seconda, a mio avviso, non è praticabile senza la prima; mentre la prima, almeno in teoria, può anche fare a meno della seconda.

La “psicologia dell’altezza” non può fare a meno della “psicologia del profondo” – se vuole essere veramente efficace e… all’altezza – perché non può prescindere dall’analisi dei desideri profondi della persona che vi si rivolge.

Desideri che molte volte sono stati rimossi (da un’educazione sbagliata, da un ambiente repressivo, da condizioni economiche svantaggiate…) e sono quindi “sepolti” nell’inconscio.

Non possono, quindi, essere portati alla luce e divenire consapevoli se non da una “psicologia del profondo”.

Nessuna “psicologia dell’altezza” può nascere, svilupparsi e, soprattutto, risultare efficace sulla base della rimozione o della repressione del “profondo”.

© Giovanni Lamagna

Il tema del consenso nei regimi scopertamente autoritari

Nel suo libretto “Gramsci” (Tascabili economici Newton; 1996) Antonio A. Santucci afferma quanto segue: “Nel caso dei regimi scopertamente autoritari, il problema della verità risulta in fondo secondario. Infatti, per definizione, dittatori e gruppi oligarchici non si curano di guadagnare il consenso dei ceti dominati. Per lo più non mentono neppure, non badano a nascondere i loro interessi e scopi. Possono persino esibire con sincerità prevaricazioni e intenti tirannici, a fini di propaganda e a monito degli oppositori, giacché comandano mediante la coercizione violenta. Le forze democratico-borghesi inclinano invece a camuffare la reale natura di interessi sociali ed economici contrapposti. Occultano quindi la verità, allo scopo di ottenere un consenso passivo, spacciato per libera adesione o addirittura sostegno partecipativo.” Concordo solo molto parzialmente con questa valutazione.

Certamente i “regimi scopertamente autoritari” “comandano (essenzialmente e primariamente) mediante la coercizione violenta”, mentre quelli democratico-borghesi tendono a conquistare il consenso delle masse subalterne, in primis camuffando e distorcendo la reale natura dei rapporti di classe, quindi ingannando e occultando la verità (in epoca contemporanea soprattutto attraverso i mass media).

Non sono d’accordo, invece, che il tema/obiettivo del consenso (per quanto distorto e passivo, ottenuto cioè con l’inganno) si ponga solo per i regimi democratico-borghesi e non anche per quelli apertamente autoritari.

Perché penso che nessun regime (neanche quello più ferocemente autoritario e dotato di ampi e sofisticati strumenti repressivi) possa reggersi alla lunga senza una qualche forma di consenso.

Sono convinto, insomma, che anche le dittature più “solide ed efficienti” si debbano porre il problema del “consenso dei ceti dominati” e che non possano affidarsi solo e semplicemente agli strumenti repressivi e prevaricatori.

Nessun regime autoritario sarebbe in grado, infatti, di reggere all’urto e alla ribellione della gran parte della popolazione sottomessa, laddove venisse meno il consenso dato al regime in forme più o meno passive, più o meno esplicite.

Per questo (e non a caso) l’arma della propaganda fa parte della strumentazione tipica a cui fanno ricorso i regimi autoritari, anche quelli più scopertamente tirannici, per ottenere un minimo di consenso o, quantomeno, di non attiva ed esplicita opposizione.

Ne sono stati conferma importante il regime fascista in Italia, quello nazista in Germania e quelli comunisti nei paesi dell’Europa dell’Est, per citare solo tre esempi del secolo appena trascorso.

Fin quando questi regimi hanno avuto una base ampia e possiamo pure dire sostanzialmente maggioritaria di consenso, essi hanno tenuto. Anche se avevano indubbiamente bisogno per reggersi anche di un mostruoso apparato repressivo.

Quando questa base di consenso è venuta meno, per una molteplicità e varietà di fattori, essi sono miseramente crollati, nonostante l’enorme e mostruoso apparato repressivo che ancora continuava a supportarli.

© Giovanni Lamagna