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I concetti di “Dio” e di “anima” nel pensiero buddhista.

Dopo aver affermato e, quindi, riconosciuto che il Buddhismo nega sia il concetto di Dio che quello di anima, Vito Mancuso, nel suo “I quattro maestri” (Garzanti; 2020), tra la pag. 194 e la pag. 203, cerca di recuperare entrambi i concetti, come dimensioni di pensiero sostanzialmente, anche se non esplicitamente, presenti nel Buddhismo,

Ma in questo modo, almeno a mio avviso, egli non rende un buon servigio (come, invece, molto probabilmente, era nelle sue intenzioni) al Buddhismo stesso, almeno come pensiero in qualche modo compatibile con l’evoluzione (prevalente) del pensiero filosofico (occidentale) degli ultimi 4/5 secoli.

Cosa dice Mancuso rispetto al concetto di Dio? Egli parte dall’assunto che, quando si parla di Dio, “si intende rimandare a un livello dell’essere diverso rispetto a quello della vita ordinaria, ritenuto più vero, più giusto, più stabile, permanente e non impermanente, pace infinita e non lotta continua.”

E poi aggiunge: “… parlando di Dio si intende anche affermare che questo livello più vero dell’essere, pur essendo totalmente altro, è altresì fortemente intrecciato con il nostro livello dell’essere, così che è possibile accedervi qui e ora, entrarvi in comunione, sperimentarlo, viverne. E’ quanto il Buddha sperimentò con l’esperienza del nirvana…”

Per, infine, concludere, in buona sostanza, che quindi il concetto di “divino” non è affatto estraneo, ma pienamente presente, per quanto solo sottinteso, nel pensiero buddhista.

Qui, almeno in questo passaggio, Mancuso si dimostra un cattivo filosofo, perché identifica, fa coincidere termini ed esperienze diverse, confondendo i concetti, invece di chiarirli.

Innanzitutto fa coincidere il concetto di “divino” con il concetto di “Dio”; mentre i due concetti non coincidono affatto; il “divino” non è “Dio”; perlomeno non è il Dio trascendente, separato da questo mondo, creatore e non creato, eterno, infinito e onnisciente, come lo intende la gran parte delle tradizioni religiose del mondo.

In secondo luogo l’esperienza del “nirvana”, come la descrive il Buddha, è appunto un’esperienza etica, meditativa, ascetica, contemplativa, mistica, ma pur sempre un’esperienza umana, quindi un’esperienza che può essere analizzata con gli strumenti e descritta coi termini della psicologia.

Un’esperienza che potremmo anche definire, in senso lato e metaforico, esperienza del “divino”, ma di un divino che “è qui, ora, in questo mondo; è questo mondo diversamente sperimentato”; non è certo l’esperienza di un mondo altro, diverso, separato, da quello nel quale ora viviamo.

Ora cosa ha a che fare questa esperienza con il concetto di “Dio” classicamente inteso, come ce lo hanno trasmesso le maggiori tradizioni religiose del mondo e perfino la maggioranza delle filosofie dei primi due millenni di storia di questa disciplina di pensiero? A mio avviso, nulla; anzi le è del tutto incompatibile.

Più complesso si fa il discorso relativamente all’anima, sia relativamente a quello che fa Buddha che a quello che fa Mancuso.

Perché, mentre nei confronti dell’esistenza o meno di Dio, – dice Mancuso – “Buddha sospese il giudizio con il suo silenzio, sul concetto di anima egli prese esplicitamente posizione parlando di non-anima, anatman, negò cioè la realtà dell’anima (in sanscrito atman) per affermare piuttosto l’assenza di un sé individuale e permanente. Per il Buddha infatti l’individuo è soltanto un insieme di aggregati impermanenti e il più delle volte ricolmi di sofferenza…”.

Qui manifesto subito il mio accordo con Buddha e, allo stesso tempo, il mio dissenso da lui.

Sono sostanzialmente d’accordo con lui sul fatto che l’individuo, come del resto ogni altra realtà singolare, anche quelle esclusivamente materiali (come, ad esempio, una pietra) siano realtà “impermanenti”, destinate cioè ad avere un inizio e una fine, quindi a non durare in eterno.

Non sono d’accordo, invece, con lui sul fatto che le varie realtà, specie quelle non esclusivamente materiali (come, ad esempio, una psiche umana) non abbiano “un sé individuale”, che non si confonda con altre realtà individuali (ad esempio, una pietra), almeno per la fase in cui l’insieme di aggregati che la costituisce si mantiene unito, compatto, potremmo anche dire in vita.

Non sono inoltre d’accordo con Buddha sul fatto che ciò che caratterizza le varie realtà individuali, singolari, sia soprattutto, se non esclusivamente, la sofferenza; perché ciò contrasta – a quanto mi consta – con il sentimento diffuso e prevalente della gran parte di esse o, almeno, di quelle umane.

Non sono, infatti, in grado di dire se una roccia o un fiore o un cane siano felici o almeno contenti di stare al mondo.

Ma sono bene in grado di affermare che la maggior parte degli uomini sono contenti di essere venuti al mondo e ci vogliono restare il più a lungo possibile, anche se questo loro stare al mondo non è esente da dolori fisici e sofferenze psichiche; altrimenti avrebbero la possibilità e troverebbero il modo di dargli volontariamente un termine.

Vengo, dunque, al discorso (molto singolare, a mio avviso!) che fa Mancuso sul tema dell’anima.

Egli da un lato concorda sul fatto che quella che Buddha chiama “mente” (citta) e che lui (Mancuso) definisce come “centro di volizione personale” o “coscienza” o “io psichico” sia destinata a perire, allo stesso modo del corpo, dall’altro afferma che non “finisce tutto” con la morte. Anzi attribuisce anche a Buddha questo suo pensiero.

Il suo ragionamento francamente mi pare che si arrampichi sugli specchi; proverò a dimostrare perché.

In primis si chiede: che cosa intendiamo concretamente con il concetto di “anima spirituale”? E si dà la seguente risposta, che articola su tre punti fondamentali:

“1) l’esperienza dell’esistenza di un centro di volizione personale detto anche libero arbitrio, capace di intendere e di volere, e che si esprime principalmente nella consapevolezza e nell’intenzione;

2) l’esperienza della possibilità di connessione con l’essere eterno, il livello più vero della realtà, la verità, fino alla possibilità di esserne parte;

3) l’esperienza dell’esistenza di un principio di continuità personale che garantisce la possibilità della conservazione del lavoro spirituale svolto e dell’energia morale accumulata.”

Secondo Mancuso “il Buddha, pur negando l’esistenza dell’anima a livello concettuale, riconobbe pienamente le (tre) esperienze fondamentali che ne sono alla base.”

Proverò, allora, ad entrare nel merito dei tre ragionamenti fondamentali di Mancuso e a distinguere gli argomenti sui quali concordo da quelli sui quali dissento, perché mi appaiono incongrui.

1.Buddha “nega l’esistenza di un sé separato ma sottolinea con molta forza la volizione autonoma in prima persona singolare, la prima delle tre esperienze veicolate dal concetto di anima, ovvero la capacità di volere coscientemente e responsabilmente…”.

Buddha, infatti, “insistette sempre sul fatto che il lavoro di liberazione dalla ruota dell’esistenza tramite la ruota del Dharma debba essere compiuto dal singolo individuo e che nessun altro lo possa compiere al suo posto, non essendoci spazio per gli interventi soprannaturali…

Le ultime parole attribuitegli richiamano esattamente lo sforzo personale “Continuate a esercitarvi, instancabilmente”, a rimarcare nel modo più netto la centralità della volontà personale.”. E fin qui concordo con Mancuso.

2. Non concordo affatto, invece, con la seconda affermazione che fa – tra l’altro molto sbrigativamente, dandola quasi per scontata sul piano logico-teoretico – Mancuso relativamente al concetto di “anima”: la possibilità per questa “di connessione con l’essere eterno fino alla possibilità di esserne parte”.

In questo caso Mancuso opera quello che a me sembra un vero e proprio salto logico: perché, infatti, il riconoscimento della realtà che egli chiama “anima” dovrebbe implicare automaticamente la possibilità di entrare a far parte dell’essere eterno?

E, inoltre, su quali basi si dimostra l’esistenza di un “essere eterno”, almeno nel senso in cui lo intende Mancuso, nel senso cioè in cui comunemente qui in Occidente si intende “Dio”? Su questo argomento mi sono già soffermato in precedenza e quindi non ci ritorno sopra.

3. Anch’io concordo sulla tesi dell’anima come “continuità personale” dell’individuo. In precedenza l’ho già sostenuta e avvalorata. Concordo anche sul fatto che il buddhismo implicitamente, anche se non esplicitamente, la riconosca. Questo però cosa significa: che l’anima individuale è destinata a sopravvivere al corpo che l’ha ospitata fin quando questo è rimasto in vita?

Anche qui mi trovo davanti a un salto logico, che non sono disposto a fare.

Per me è legittimo affermare l’esistenza di una realtà psichica individuale e sono anche disposto a chiamarla, per convenzione terminologica, “anima”. Non sono disposto, però, a parlare di immortalità dell’anima. Il fatto che lo faccia il Dalai Lama attualmente vivente non è per me argomento sufficiente a favore di tale tesi.

Certo, il buddhismo afferma la teoria delle “rinascite successive”! Ma, come riconosce lo stesso Mancuso, secondo questa teoria ciò che trasmigra in altre vite non è l’individuo, non è la sua “anima immortale, quanto piuttosto l’operato dell’individuo, l’influenza e il carico morale delle sue azioni”.

Di cui io colgo l’inconfutabile nucleo di verità: ognuno di noi lascia, soprattutto alle persone che più gli sono state vicine e alle generazioni successive, l’eredità di un insegnamento e di una testimonianza personali, nella loro eventuale valenza positiva come in quella eventualmente negativa.

Ma questo cosa ha a che fare con la teoria dell’immortalità dell’anima? Nulla!

Almeno sotto questo punto di vista a me pare, dunque, che il Buddhismo si dimostri come sistema di pensiero molto più “laico” e, soprattutto, più teoreticamente rigoroso di Vito Mancuso; le cui riflessioni sono comunque per me molto stimolanti e quindi degne di tutta la mia stima e il mio apprezzamento, anche quando non le condivido o le condivido solo in parte.

© Giovanni Lamagna