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Esiste la pulsione di morte?

Francamente non credo che esista, come afferma Freud, una vera e propria “pulsione di morte” (Todestrieb), autonoma dalla pulsione di vita, anzi ancora “più originaria, più elementare, più pulsionale” di questa.

Capisco bene le motivazioni ed il contesto storico e persino personale che spinsero Freud ad elaborare questa idea: penso all’esperienza della prima guerra mondiale e al sentore dello scoppio imminente della seconda, alla frequentazione quotidiana di pazienti devastati da una condizione esistenziale talvolta insanabile e (forse) anche alla stessa sofferenza dei suoi ultimi anni di vita, quelli della vecchiaia e, quindi, della decadenza.

Ma ugualmente l’idea della “pulsione di morte”, così come la elaborò Freud, non a caso nell’ultima fase della sua vita, pur con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho per il grande pensatore viennese, mi appare poco o niente convincente. E per vari motivi.

Innanzitutto perché affermare l’idea di una pulsione di morte che addirittura precede la pulsione di vita è un po’ come dire che la morte viene prima della vita, che l’uomo (anzi qualsiasi vivente) prima esiste e, quindi, vive come morto e poi come vivo: pensiero alquanto paradossale!

Poi perché la stessa espressione “pulsione di morte” è per me un vero e proprio ossimoro, rappresenta una contraddizione in termini: ciò che pulsa non può essere morto e ciò che è morto non può pulsare.

E, infine, perché penso che la pulsione di morte, di cui parla Freud, altro non sia che la stessa pulsione di vita quando si ammala, quando cioè la vita si rivolta contro se stessa, devia da quello che dovrebbe essere il suo percorso evolutivo naturale e tende ad autodistruggersi.

Quindi la pulsione di morte (ammesso che si possa parlare correttamente, dal punto di vista anche solo linguistico, di “pulsione di morte”) per me non è, non può essere, una pulsione altra, distinta, autonoma, diversa, anzi opposta alla pulsione di vita, ma è solo la sua versione patologica.

A maggior ragione la pulsione di morte (concepita da Freud – ripeto e guarda caso negli ultimi anni della sua vita – , sostenuta poi con forza da Lacan e oggi ripresa con altrettanta energia e convinzione da Massimo Recalcati, nel suo libro “Le nuove melanconie”, in polemica garbata ma altrettanto decisa con i neolacaniani, che a suo dire l’avrebbero edulcorata e in fondo svuotata del suo potere urticante e scabroso) non è, dunque, almeno per me, una pulsione che strutturalmente, per sua natura intrinseca, nega “l’incontro con l’Altro”.

Quasi fosse un’altra forma di vita, di esistenza, una vita e un’esistenza paradossalmente nate già morte.

Ma è la stessa pulsione di vita, che non ha avuto (nella fase dell’infanzia soprattutto) un’esperienza positiva e felice nell’incontro con l’Altro (quando i primi incontri con l’Altro – in modo particolare con i genitori, in modo ancora più particolare con la madre – segnano, decidono quasi definitivamente il destino della nostra vita emotivo/affettiva) e, quindi, si è ritirata in se stessa, ripiegata su di sé, delusa, disperatamente immalinconita, e perciò ammalata.

Oltretutto questo modo di vedere non mi pare che neghi e neanche che tenda ad oscurare, edulcorare o sottovalutare, come sembra temere Recalcati, il lato tragico della vita e persino le spinte autodistruttive, a volte assolutamente devastanti, presenti in molte esistenze umane.

Significa solo spiegarli e motivarli con argomentazioni diverse da quelle a cui fece ricorso Freud e, dopo di lui, da tanti altri insigni psicoanalisti ( i cosiddetti ortodossi), tra i quali i già citati Lacan e Recalcati, senza cadere nelle loro contraddizioni teoriche, che a me sembrano piuttosto vistose, come ho provato qui a dimostrare.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Capri revolution”.

Finalmente ho visto “Capri revolution”, l’ultima opera di Mario Martone, che avevo perso in prima visione: l’ho recuperato al cineforum che frequento il martedì. Un film esteticamente molto bello, intrigante, coinvolgente. E contenutisticamente molto complesso, che può essere letto su più livelli: storico, economico, sociale, culturale, politico…

Livello storico. Il film vuole raccontare il clima in cui avvenne lo scoppio della prima guerra mondiale, quando si incrociavano e convivevano pulsioni e ideali ingenuamente pacifisti con tendenze e istanze ciecamente interventiste; il bisogno di un lavacro che quasi purificasse l’umanità e la consapevolezza del disastro immane al quale si stava andando incontro, la felicità e l’allegria della bella epoque e l’atroce presentimento della imminente carneficina.

Livello economico. Il film descrive la realtà agricolo-pastorale degli inizi del secolo scorso e l’avvio del processo di industrializzazione, con tutte le forti contraddizioni che questo avvio ha comportato. Emblematico il fatto che il padre di Lucia (la protagonista del film) nasce contadino-pastore e poi, con l’insediamento dell’acciaieria di Bagnoli, da Capri si trasferisce a Napoli e diventa operaio metallurgico: per questo si ammala ai polmoni e muore di cancro.

Livello sociale. Il film evidenzia le forti disuguaglianze presenti anche in una piccola realtà come Capri. I contadini-pastori vivono ovviamente in una condizione di estrema povertà. I ceti medi benestanti si sono arricchiti essenzialmente grazie al commercio legato al turismo. I contadini-pastori tendono ovviamente ad elevare la loro condizione economico sociale entrando a far parte della classe media, soprattutto attraverso matrimoni combinati (tipo quello che i fratelli propongono e quasi impongono a Lucia).

Livello culturale. La popolazione indigena vive in una condizione di grave arretratezza culturale. In gran parte è analfabeta. Pensa e agisce in base a schemi bigotti e patriarcali. Ne è un esempio eclatante il modo in cui i due fratelli (specie il maggiore e specie dopo la morte del padre) trattano la giovane Lucia, protagonista del film, quasi come se fossero i suoi padroni, insofferenti (a voler usare un eufemismo) ai suoi desideri/tentativi di emancipazione (c’è qui un’eco anche delle nascenti istanze femministe).

Eppure Capri ospita una comunità (anzi una “comune”) formata da uomini, donne e bambini provenienti in massima parte dalle nazioni del nord Europa. Che hanno sposato la condizione economica prevalente dell’isola (quella agricolo-pastorale), come una via per ritrovare l’antica natura della condizione umana e recuperarne la genuinità, praticando il nudismo, la danza, la musica, il canto, la pittura (le arti, insomma, nelle varie forme) e una sorta di religione pagana adoratrice della natura: il sole, la luna, il mare, le rocce…), di cui l’isola di Capri è quasi topos archetipo.

Ovviamente la presenza di una piccola comunità, così anomala e trasgressiva, all’interno della comunità più vasta dell’isola, del tutto tradizionale e conservatrice, ingenera il conflitto che sempre si genera tra l’istanza progressista e quella conservatrice. Anche se Lucia, la giovane pastorella di capre protagonista del film, si pone come l’anello di congiunzione tra le due istanze e alla fine entrambe le supera.

Lucia è attratta e turbata allo stesso tempo dai comportamenti degli abitanti della Comune: prova insieme ripugnanza e curiosità per il loro modo di vivere, ma alla fine ne è conquistata, abbandona la casa dove abitava assieme alla madre e ai fratelli e va a vivere nella comunità.

Livello politico. Un altro elemento dello scontro culturale, che in questo caso diventa anche politico, è dato dal rapporto tra quello che è un po’ il guru della comunità, Seybu (ascetico, contemplativo, naturista, vegetariano, trasgressivo sul piano dei costumi sessuali, ma ascientifico nella cura delle malattie, fanaticamente alla ricerca di fantomatici rimedi naturali e omeopatici) e Carlo, il giovane medico giunto da poco a Procida (uomo di scienza rigoroso, generoso, politicamente progressista, vagamente socialista, ma sostenitore dell’intervento in guerra, fanaticamente convinto che la sconfitta degli imperi centrali avrebbe provocato un rimescolamento dei rapporti sociali e favorito, quindi, l’emancipazione delle classi subalterne).

Il film è l’intreccio e la combinazione pregevole di questi diversi livelli di lettura di una storia, che trova però i suoi pilastri, i suoi fondamenti, nello spazio (Capri, luogo magico per antonomasia, per il suo paesaggio, per il clima, il sole, il mare, il cielo, la luce, la vegetazione, le rocce…) e nel tempo in cui si svolge, tempo così fortemente caratterizzato dall’idea di “rivoluzione”, come forse nessun altro mai.

Perciò Lucia è l’assoluta protagonista del film (interpretata da Marianna Fontana, un’attrice dal volto straordinariamente intenso, selvaggio e dolce, popolare e nobile: tale da sembrare estratto da un acquerello di Vincenzo Gemito).

Perché Lucia è figlia di Capri, della Capri tradizionale e conservatrice, ma allo stesso è capace di emanciparsi, dando una sua personale lettura e traduzione pratica della rivoluzione, che non saranno né quella del guru nordico pacifista-naturista, né quella del medico socialista scientista e interventista.

Lucia è capace di recuperare il rapporto primario con la madre. Che, in una delle scene finali, le dice “sapevo che saresti tornata” e, allo stesso tempo, “quando uscivi la notte, io ti vedevo, ma facevo finta di non vederti; quando uscivi la notte, ero un po’ anche io che uscivo con te”. E qui le due generazioni, rappresentate dalla madre e dalla figlia, sembrano trovare un punto di congiunzione.

Ma subito dopo la stessa Lucia prende il piroscafo e parte non si sa per dove, verso un luogo indefinito; in ogni caso, per viversi la sua libertà ed emancipazione, oramai definitivamente e saldamente conquistate.

Giovanni Lamagna