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Legalità e giustizia.

Montaigne già alla fine del 1500 traccia in modo lapidario e direi definitivo un confine netto tra il concetto di legalità e quello di giustizia.

Che non collimano affatto, come il pensiero comune tende banalmente a ritenere, ma spesso confliggono.

Non sempre ciò che è legge è anche giusto, come non sempre ciò che è giusto è tradotto anche in legge.

Montaigne così scrive nel libro III, cap. XIII, a pag. 1004 dei suoi “Saggi”:

“Ora le leggi mantengono il loro credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. E’ il fondamento misterioso della loro autorità. Non ne hanno altri. E torna loro a vantaggio. Sono fatte spesso da gente sciocca. Più spesso da persone che, per odio dell’eguaglianza, mancano di equità. Ma sempre da uomini: autori vani e incerti. Non c’è nulla di così gravemente e largamente né così frequentemente fallace come le leggi.”

© Giovanni Lamagna

Sui sensi di colpa.

Non tutti i sensi di colpa sono uguali: esiste un senso di colpa insano e un senso di colpa sano.

E’ un senso di colpa insano quello di Adamo ed Eva, che si coprono il viso, provano vergogna perché si scoprono nudi, appena dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.

Eppure hanno fatto quello che dovevano fare, quello che erano destinati a fare, per diventare pienamente umani, adulti e non restare più bambini: conoscere il bene e il male, prendere consapevolezza della radicale differenza tra il bene e il male e della possibilità conseguente di scegliere tra l’uno e l’altro.

Se non avessero mangiato quel frutto, Adamo ed Eva sarebbero rimasti per sempre immaturi, infantili; beati, ma beoti; avrebbero quindi tradito la loro umanità.

E’ un senso di colpa sano, invece, quello che a volte ci perseguita, ci tallona, quando tradiamo il nostro desiderio, il nostro daimon, la nostra vocazione profonda, il desiderio che ci chiama a realizzare noi stessi.

E’ un senso di colpa sano quello che proviamo quando, per obbedire ad un comandamento che ci viene da fuori, non obbediamo al comandamento che ci viene da dentro, quando non ci assumiamo la responsabilità delle nostre scelte e decisioni.

E’ sano, nel senso di vitale, quel sentimento che ci fa sentire in colpa per le nostre timidezze, paure, insicurezze, pigrizie; in una sola parola: per la nostra accidia.

E’ il senso di colpa che probabilmente comunque avrebbero avvertito Adamo ed Eva, se non avessero mangiato il frutto dell’albero del bene e del male, se, per restare comodi, beati, a sfruttare gli agi che assicurava loro il Paradiso terrestre, non avessero seguito la loro vocazione profonda a conoscere, fosse pure il male (ma esiste il bene senza il male? si può conoscere il bene senza conoscere anche il male?).

E’ insano il senso di colpa che alcune volte proviamo per aver avuto coraggio, per aver sfidato la norma sociale, la convenzione, che ritenevamo in cuor nostro ingiusta, per aver creato noi una nuova norma, più in accordo con la nostra coscienza (fosse anche valida solo per noi), per essere diventati dunque un po’ più padroni di noi stessi e non asserviti al volere di altri o al pensiero comune.

E’ sano, invece, il senso di colpa opposto, quello che proviamo quando non abbiamo il coraggio che ci viene richiesto in alcune circostanze, quando preferiamo seguire la corrente, anziché andarle contro, intrupparci nel gregge, anziché uscirne, lasciarsi andare al corso delle cose, facendocene trascinare, senza prendere in mano la nostra vita e diventarne attori protagonisti e non comparse anonime.

Credo sia sufficientemente chiaro a questo punto quello che intendevo dire all’inizio: non tutti i sensi di colpa sono uguali; ce ne sono alcuni che hanno ragion d’essere e sono quindi sani, altri del tutto infondati e perciò insani.

© Giovanni Lamagna

Su Confucio.

Ho letto con molto interesse le pagine che Vito Mancuso, nel suo “I quattro maestri” (Garzanti, 2020), dedica a Confucio. Che cosa ne ho ricavato?

Innanzitutto un’impressione di carattere generale: mi pare che Confucio non sia e non possa essere messo al livello degli altri tre grandi maestri (Socrate, Buddha e Gesù), cui Mancuso nel libro dedica altrettante monografie di un centinaio di pagine ciascuna.

Socrate, Buddha e Gesù hanno, infatti, detto, tutti e tre, parole che sono diventate pietre miliari nella storia del pensiero umano; quelle pronunciate da Confucio sono parole in molti casi di buon senso, ma non mi pare particolarmente illuminanti.

La testimonianza umana, in altre parole l’insegnamento di vita, di Socrate, Buddha e Gesù sono stati di radicale rottura con il modo ordinario di vivere dei loro contemporanei, tanto è vero che il primo e il terzo li hanno addirittura pagati col prezzo della vita.

Confucio, per carità, pure lui propugna un’ideale di vita e se ne fa testimone, credo fedele, integerrimo. Ma si muove, anche per scelta intellettuale e quindi consapevole, del tutto all’interno della tradizione del popolo cinese, senza operare rotture, anzi esaltandone la continuità.

Potremmo, dunque, con buone ragioni sostenere che Socrate, Buddha e Gesù rientrano, ognuno per ragioni diverse, nella categoria dei “rivoluzionari” o, quantomeno, dei sovvertitori del pensiero comune e ordinario.

Confucio pure lui fa una distinzione tra “uomo ordinario” ed “uomo nobile”, ma per lui l’uomo nobile è colui che, lungi dal volerle sovvertire, è perfettamente rispettoso delle tradizioni; Confucio, in altre parole, rientra nella categoria dei “conservatori”.

In ogni caso anche Confucio può essere considerato un uomo di grande spiritualità. L’uomo nobile, infatti, per lui si caratterizza non tanto per il casato e per il lignaggio, quanto per la “sensibilità umana”.

L’uomo dunque per lui non “nasce” nobile, ma “diventa” nobile nella misura in cui si educa a quello che egli definisce “il senso di umanità”, rispettoso della natura e degli altri suoi simili.

La seconda caratteristica dell’insegnamento di Confucio, che lo contraddistingue particolarmente rispetto a quello degli altri tre maestri di cui parla Mancuso, è che per lui vita interiore, disciplina spirituale, e vita esteriore, azione politica, camminano di pari passo.

La prima si manifesta nella seconda, la seconda rende esplicita e traduce all’esterno la prima. La seconda non ci sarebbe, non sarebbe possibile senza la prima. Ma anche la prima non avrebbe senso senza la seconda e quindi non può farne a meno.

Confucio è, quindi, un Maestro nell’arte della politica. Da prendere ad esempio, se per politica si intende la traduzione nella vita comunitaria e sociale dell’armonia che l’uomo spirituale si è costruita dentro.

Da non imitare (almeno a mio avviso) se per politica si intende un rispetto esagerato per le tradizioni e i rituali antichi e, soprattutto, per l’obbedienza, non dico acritica, ma comunque mai seriamente messa in discussione, nei confronti dell’autorità costituita.

© Giovanni Lamagna

Pensiero Zen e pensiero cristiano

Il pensiero Zen è chiaramente un pensiero divergente.

Perché sconvolge il pensiero comune, ne cambia radicalmente la prospettiva, fa vedere le cose da un punto di vista completamente diverso da quello prevalente.

Ed è un pensiero molto, se non esclusivamente, di natura contemplativa.

Anche quello cristiano è un pensiero divergente; è però meno contemplativo di quello zen.

Intendiamoci, pure la mistica cristiana parte dal rapporto con Dio.

Si fonda quindi sulla contemplazione.

Il suo focus, però, si situa più sulle relazioni tra gli uomini (“Ama il prossimo tuo…”) che sulla contemplazione.

© Giovanni Lamagna

Sinistra, sessualità e rivoluzione

Ho potuto più di una volta verificare, parlando con uomini e donne della sinistra culturale e politica, quindi uomini e donne dalla mentalità teoricamente (almeno teoricamente) aperta e progressista, dunque disponibile, anzi favorevole, predisposta ai cambiamenti, che, quando si affrontano argomenti che ineriscono la sessualità e in generale i rapporti tra i sessi, essi/e tendono ad assumere posizioni piuttosto convenzionali, scontate, figlie del pensiero comune, diffuso, corrente, dominante.

Se non addirittura puritane e persino vicine al pensiero cattolico, neppure il più avanzato.

Questo dice (a mio modesto modo di vedere) quanto siamo lontani da una situazione rivoluzionaria o anche solo prerivoluzionaria, come pure molti di questi uomini e donne (i famosi compagni e le famose compagne) dicono di intravedere o di vedere come prossima o, perlomeno, di volere, desiderare, auspicare.

Per me, invece. (sulla base anche di quanto ci ha spiegato un pensatore autenticamente radicale come Wilhelm Reich già parecchi decenni orsono) non si darà mai un vero rivoluzionamento della struttura economica, sociale e politica di un popolo, se – prima o quantomeno in contemporanea – non verranno messi in discussione comportamenti, usi, abitudini, mentalità, che riguardano la vita sessuale delle persone, per essere sostituiti con altri radicalmente diversi, anzi alternativi.

La rivoluzione sociale e politica o sarà contemporaneamente (se non addirittura prima) psicosessuale o semplicemente non ci sarà.

Questo a conferma di una tesi su cui torno spesso: la rivoluzione (una qualsiasi rivoluzione) non potrà mai consistere in un “semplice” moto insurrezionale di breve durata, di presa (ovviamente violenta!) di un qualche palazzo del potere.

Ma dovrà e non potrà che essere l’esito, il risultato finale di un processo lungo, progressivo e, quindi, necessariamente graduale, che dovrà investire tutte le dimensioni del vivere personale e collettivo di una determinata società, a cominciare dalle strutture profonde (quindi anche quelle che riguardano lo psichismo individuale, a partire da quello sessuale) delle persone che vi saranno coinvolte.

© Giovanni Lamagna