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Alcune semplici e brevi riflessioni sul concetto buddhista di “nirvana”.

Il concetto buddhista di “nirvana” non è esente da ambiguità e, quindi, da possibili fraintendimenti.

Infatti, può essere inteso (e da alcune scuole buddhiste viene inteso) come rinuncia totale a qualsiasi desiderio, in quanto nel desiderio risiederebbe la radice stessa della sofferenza umana.

Secondo questa interpretazione la rinuncia radicale e totale ai desideri metterebbe fine alle sofferenze.

Per cui, da questo punto di vista, la morte sarebbe la condizione che meglio realizzerebbe questa condizione nirvanica.

L’altro modo di intendere il “nirvana” è meno radicale ed estremo: non prevede la rinuncia totale al desiderio, ma solo il non attaccamento all’oggetto del desiderio.

Non dunque la rinuncia al desiderio in sé, inteso anzi come pulsione necessaria alla affermazione della vita, ma la rinuncia alle manifestazioni compulsive ed ossessive del desiderio, ai falsi bisogni, che non si riescono a padroneggiare, ma di cui si perde il controllo, fino, in certi casi, a diventarne schiavi.

Non la rinuncia pertanto al desiderio correttamente inteso, ma alla brama, alla bramosia, che sono degenerazioni del desiderio.

E’ questa l’interpretazione in genere prevalsa nel mondo occidentale tra coloro che hanno aderito al buddhismo o simpatizzato con esso, perché, con tutta evidenza, è quella che meglio si concilia (o perlomeno non vi si contrappone del tutto) con il modo di pensare e di vivere prevalente presso le nostre culture.

Anzi va pienamente d’accordo con le principali correnti ascetiche e mistiche della tradizione occidentale, coincide sostanzialmente con esse.

Io, però, non sono del tutto convinto che sia questa seconda l’interpretazione più esatta del pensiero di Buddha, il quale non a caso parlava di due tipi di nirvana: il “nirvana con residuo” e il “nirvana senza residuo”.

Il primo si ottiene appunto con il distacco emotivo e mentale dall’oggetto del desiderio; ma non può che essere parziale, in quanto libera dalle sofferenze della mente, ma non da quelle del corpo.

Il secondo si ottiene unicamente con la morte, la quale sola estingue, spegne ogni soffio vitale, realizzando quella condizione che è espressa dalla radice etimologica della parola (“nir”: non + “va”: soffio).

Per cui lo stato pieno del nirvana si raggiungerebbe solo con lo spegnimento totale della vita e non col semplice distacco dagli oggetti del desiderio, raggiunto attraverso una particolare ascesi della volontà e del pensiero.

© Giovanni Lamagna