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Invidia del pene?

Ogni essere umano vive una mancanza, si sente mancante di qualcosa: è normale!

“Mancanza”, però, non è sinonimo di “mutilazione”; né sul piano psicologico, né, tantomeno, su quello fisico.

Quindi ha senso, ha un suo fondamento, affermare – come ha fatto Freud – che le donne avrebbero “l’invidia del pene”.

A patto, però, di ipotizzare – per analogia – che anche gli uomini hanno invidia di qualcosa; ad esempio, “l’invidia del seno”.

Come sembra dimostrato – in modo inequivocabile – dalla conversazione tra Marco e Paola di qualche giorno fa: “Mamma, vorrei avere anche io le tette come le hai tu; perché non sono nato femmina?”

© Giovanni Lamagna

Scrivere è come partorire.

Quando si comincia a scrivere qualcosa spesso non si ha un’idea esatta, precisa, completa, di quello che si scriverà.

Molte volte si è mossi da un pensiero inizialmente ancora vago, generico, confuso: appena l’abbozzo di un’idea.

Poi, man mano che si scrive, il pensiero si dipana, chiarisce, si rivela prima alla mente, poi alle mani, infine – quando è stato messo sul foglio – alla vista dello scrittore.

Per questo lo scrivere assomiglia molto al partorire.

Infatti, quando la mamma sta per partorire il suo bambino sente di averlo già tutto formato dentro il suo ventre; ma, ovviamente, non ne conosce ancora esattamente, anzi non ne conosce quasi per niente, le fattezze.

Per tutti i nove mesi di gravidanza ne ha avuto solo timidi indizi: i calci nella pancia, per esempio.

Oggi, con le moderne ecografie, se ne possono sapere in anticipo innanzitutto il sesso e poi, con una certa precisione, anche il peso, l’altezza e persino i lineamenti del viso.

Ma è solo con il parto che il bambino si rivela pienamente alla madre in tutte le sue fattezze.

Proprio come avviene con il testo scritto che si rivela pienamente all’autore solo dopo che egli lo definitamente portato sulla carta o sul computer.

Insomma solo dopo che lo scrittore lo ha – per restare nella metafora – finalmente partorito.

© Giovanni Lamagna

Meglio tardi che mai!

Su una pagina facebook ho trovato il seguente post: “Non li incontreremo mai più. Quel “ti voglio bene” che gli negammo, non lo sentiranno mai più. Questa è la sola verità: mamma, papà, non li vedremo mai più. E’ inutile illudersi che forse, chissà, forse lassù … Non esiste un lassù. Non esiste nulla dopo la morte. Non gli dicemmo mai “ti voglio bene”. Non glielo potremo dire mai più.”

Mi è venuto spontaneo commentare così: “Però meglio dirlo in ritardo che mai. Dire ai nostri genitori, anche se non ci sono più, “vi voglio bene!” serve se non altro a noi, a fare pace con loro e a vivere un po’ più in pace gli anni (pochi o tanti) che ci restano.”

© Giovanni Lamagna

Dolore e mammismo.

Se, ogni volta che vivo un dolore o anche solo un disagio, mi vado a gettare tra le braccia di mamma (o di un suo sostituto totemico: mia moglie, mio marito, mia sorella, mio fratello, un mio amico, una mia amica, in certi casi persino un mio figlio o una mia figlia), non crescerò mai, non diventerò mai una persona adulta.

Resterò a vita un/a bambino/a fragile e piagnucoloso/a, che avrà bisogno sempre di tutele e protezioni; materne (o pseudo-materne), appunto!

In cerca dell’amore materno che mi è mancato probabilmente quando ero bambino/a; o mi è stato dato in maniera sbagliata, scorretta, inadeguata.

© Giovanni Lamagna

Perché la gioia? Perché la felicità?

Ci sono momenti di gioia (e, persino, di felicità) che (almeno apparentemente) non sono motivati e non hanno manco bisogno di essere motivati filosoficamente.

Ci sono: punto!

Basta vedere la gioia (possiamo pure dire la felicità) di molti bambini. Specie quando sono impegnati nel gioco. O quando stanno in braccio alla mamma o al papà.

Sono felici: punto!

E’ un dato di realtà, di cui prendere semplicemente atto. Non c’è bisogno di fare tante elucubrazioni mentali.

Giovanni Lamagna

Lettera al mio Gesù bambino

27 dicembre 2015

Lettera al mio Gesù Bambino.

Caro Andreuccio,

amato nipotino mio,

di solito, in occasione del Natale,

sono i bimbi come te a scrivere una letterina

ai loro genitori o ai loro nonni,

perché la facciano recapitare a Gesù bambino

o a “papollo”, come dici tu, per chiamare Babbo Natale.

Questa volta, invece,

sono io a scriverla a te,

perché per me TU SEI Gesù bambino.

E lo faccio, come fate voi bimbi,

per chiederti alcune cose.

Caro Andreuccio,

donami almeno un po’

della tua gioia,

della tua allegria;

donami il tuo sguardo limpido, senza ombre,

il tuo sorriso aperto,

la tua risata schietta,

a volte accompagnata dal singhiozzo,

di quando ti inseguo per gioco

e tu scappi felice

o di quando ti faccio volare in alto

e ti riprendo in braccio

e tu voli e atterri

per nulla impaurito.

Donami il tuo sguardo incantato

di quando vedi i cartoni animati

e ridi o sorridi da solo

o balli al suono della musichetta a te nota;

o di quando ascolti le storie

che mamma ti racconta.

Donami la tua semplicità

la tua pulizia interiore,

il tuo pianto ed il tuo riso.

Dammene almeno un po’,

perché io possa diventare un po’,

almeno un po’, come te.

“Se non diventerete come questi piccoli…”

Ti ringrazio, piccolo Andrea,

ti ringrazio MIO piccolo Gesù bambino,

ti ringrazio di esistere.

E ringrazio i tuoi genitori

che ti hanno messo al mondo.

Tuo nonno

Gi(ov)anni