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Alcune semplici riflessioni – obbligatorie oggi – sulla guerra e sulla pace.

Stamattina apro il computer, vado su facebook e il primo post che leggo è quello di un mio amico, Antonio, persona assolutamente pacifica e perbene, che così scrive: “Se i popoli usciti dall’oppressione sovietica hanno scelto la NATO significa che temevano la Russia. I fatti lo confermano.”

Ho sentito l’immediato impulso a rispondergli con queste parole:

“… e quindi?… abbiamo fatto bene a far entrare alcuni di questi paesi nella Nato o a far credere loro (come nel caso dell’Ucraina) che prima o poi ci sarebbero entrati?… abbiamo fatto bene a stringere la Russia in una morsa politico/militare ed a provocarne l’istinto revanscista?… ovviamente a questo punto perché non mandiamo le nostre truppe a difendere l’Ucraina dall’invasore russo, invece di limitarci alle sole sanzioni economiche?… che importa poi se ne nasce una guerra totale e (perché no?) nucleare?… per la “libertà dei popoli” si fa questo e altro!… continuiamo a soffiare, anzi a gettare benzina, sul fuoco!… in questo modo otterremo la pace… non certo “la pace perpetua”, che invocava Kant… ma “la pace eterna” dei cimiteri…

Comincio davvero ad avere paura, quando da bocche assolutamente miti (fino a ieri) come la tua, Antonio, sento pronunciare parole come quelle che leggo nel post di cui sopra…”

D’altra parte, appena poche ore prima, il segretario del PD Enrico Letta, quindi non un cittadino qualunque come me e come Antonio, aveva così twittato: “Alla Camera ho posto la necessità di non limitarsi al sostegno politico ed economico all’Ucraina aggredita dalla guerra di Putin. Ho detto che dovremmo aiutarla a difendersi, fornendo loro materiale ed attrezzature militari che li aiutino concretamente a respingere gli invasori.”

Se un uomo (all’apparenza mite come Letta, su cui ricadono responsabilità politiche non proprio insignificanti) arriva a scrivere parole simili, c’è da essere davvero preoccupati: il passo immediatamente successivo è quello di chiedere direttamente l’entrata in guerra dell’Italia, dell’Europa, della Nato.

Ma si rende precisamente conto Enrico Letta delle conseguenze di quello che ha detto e scritto e di quale esito avrebbero le sue parole se ad esse seguissero i fatti? Io ho l’impressione che in molti qua da noi stiano cominciando a perdere la testa, il controllo dei propri pensieri.

Proprio in un momento nel quale, invece di esternare propositi bellicosi e muscolari, occorrerebbe fare un bel po’ di esame di coscienza ed analizzare quali sono state (e ce ne sono state!) le nostre responsabilità (di noi paesi occidentali, della Nato e degli Stati Uniti in primo luogo) in questa lunga vicenda.

Ci rendiamo conto di cosa significherebbe (come in fondo propone Letta) rispondere alla forza e alla violenza con uguale forza e violenza?

Qualcuno in questi giorni ha avuto l’insipienza, prima ancora che l’ardire, di evocare la guerra partigiana contro Hitler e Mussolini. Credo che tale evocazione abbia a che fare con l’ignoranza prima ancora che con la temerarietà.

Si rende conto chi fa simili accostamenti e paragoni storici, di come siano mutati i tempi rispetto a quelli in cui si svolse la guerra partigiana? Di quali armi (per quanto sofisticatissime) usavano allora gli eserciti e di quali armi usano oggi? Si rende conto che una risposta militare occidentale ci porterebbe diritti, diritti dentro una guerra mondiale e nucleare mai vista finora? E chi ne uscirebbe vincitore alla fine?

Io credo, alla luce di tali semplici e persino banali ragionamenti, che oggi come non mai si ponga il problema di dire, una buona volta e per sempre, “no alla guerra!”, a qualsiasi guerra, anche a quella difensiva, anche a quella motivata dalle ragioni più sacrosante; e che non abbia più molto senso ricorrere alle antiche categorie di “aggressori” ed “aggrediti”, di “vittime” e di “carnefici”.

Che sia venuto il tempo di individuare altri strumenti di resistenza alla forza e alla violenza e persino all’invasione di un soggetto “nemico”; di “costringerlo” alla pace senza scendere sul suo stesso terreno di confronto.

Sono ben consapevole che un tale discorso può sembrare imbelle o quantomeno astratto e inattuale; temo (purtroppo! a giudicare dalle affermazioni che stanno facendo in questi giorni) che così lo giudichino (senza manco prenderlo in considerazione) un Enrico Letta o un Biden o chi sta a capo della Nato.

Ma che alternative abbiamo, se non quella di andare incontro ad una guerra totale e definitiva, che di certo non avrebbe come esito la sconfitta del nemico “brutto, sporco e cattivo”, ma un suicidio collettivo di tutti i popoli del pianeta, a cominciare da quelli europei?

E’ venuto il momento di provare a far nascere dal basso (non vedo altre vie) una tale coscienza collettiva e popolare e di imporla ai nostri governanti, dell’una e dell’altra parte. A tale scopo mirava e mira, nel suo piccolissimo, questa mia riflessione.

© Giovanni Lamagna

Chi è il mistico per me?

L’immagine più comune e diffusa del mistico è indubbiamente quella di una persona anomala, un po’ strana, forse addirittura un po’ fuori di testa, dedita ad attività di tipo misterioso e iniziatico, un uomo in ogni caso diverso dalla maggioranza degli altri uomini, che si allontana dal mondo per andare a vivere nel deserto o in qualche grotta su in montagna o, nei casi meno estremi, in qualche monastero isolato e distante dai nostri abitati.

Mi chiedo , però, se questa idea molto diffusa (potremmo dire anche stereotipata) del mistico corrisponda alla vera essenza dell’esperienza mistica o non ne ritragga solo la sua immagine più superficiale: quella che più colpisce l’immaginario collettivo o forse quella che l’ha caratterizzata indubbiamente per molte epoche storiche passate e presso varie culture.

E, di conseguenza, mi chiedo: chi è veramente un mistico? Come lo possiamo definire? Che cosa caratterizza e qualifica l’essenza della sua esperienza? Senza fermarsi quindi alla sua sola immagine esteriore e superficiale o alle sole cose che fa.

Prima di rispondere a queste domande credo sia necessario però farsene un’altra che ne è premessa: si può ancora parlare nel ventunesimo secolo di esperienza mistica? Ha ancora un senso farlo?

Premetto subito (comincio quindi a rispondere a quest’ultima domanda) che io considero l’essenza dell’esperienza mistica ancora valida e praticabile oggi, oltre che un’esperienza universale, presente e vissuta in tutte le culture.

Anzi ritengo che l’esperienza mistica, lungi dall’essere superata e oramai inattuale, sarebbe auspicabile si diffondesse e fosse praticata dal più gran numero di persone anche oggi, anzi oggi più che in passato.

Spero di riuscire ad argomentare e a motivare adeguatamente, nel seguito di questa mia riflessione, una tale affermazione, che (ne sono consapevole) può apparire curiosa e paradossale.

E vengo alla domanda iniziale: chi è dunque il mistico per me? Che cosa definisce l’essenza della sua esperienza, al di là delle connotazioni storiche e di quelle culturali che essa ha assunto nel corso del tempo e nei diversi contesti geografici e antropologici?

Comincio col dire allora che il mistico per me è un uomo come tutti gli altri. Che, però, a differenza della maggioranza degli altri uomini, si pone il problema di entrare in connessione profonda e il più possibile costante con l’Altro da sé.

Ben inteso: tutti gli uomini (non solo il mistico) hanno un qualche rapporto con l’Altro da sé. Avvertono cioè (anche se magari in una maniera molto vaga e confusa) che entro di loro abita un’altra persona. Che è allo stesso tempo uguale a sé e altro da sé. Un’interfaccia di sé.

Questo rapporto ha a che fare con l’esperienza che in psicologia viene chiamata “consapevolezza” o “introspezione”. Quell’esperienza per la quale io posso dare del tu a me stesso e colloquiare con esso, quasi fosse un’altra persona.

Che è una caratteristica tipicamente umana, quella che differenzia in maniera netta e radicale la specie umana dalle altre specie del genere animale. Nessun animale, infatti, la possiede. Se non alcuni (pochissimi) animali ed in una misura assolutamente elementare e quasi impercettibile.

E tuttavia non tutti gli uomini hanno lo stesso livello di consapevolezza.

Anzi potremmo dire che ognuno di loro ne ha uno, diverso da quello di tutti gli altri. Ogni uomo possiede il suo specifico livello di consapevolezza.

L’Umanità presenta quindi una vastissima gamma di livelli di consapevolezza.

Si va dai livelli bassissimi dell’uomo bruto, che quasi non ne possiede alcuno. La cui esistenza è quindi paragonabile più a quella degli animali che a quella degli altri uomini.

Fino ad arrivare ai livelli altissimi del mistico, appunto. Che giunge ai livelli massimi di consapevolezza possibile agli esseri umani.

Il mistico non nasce mistico, quasi che il suo essere mistico gli fosse connaturato, congenito. Ma diventa mistico. Anzi decide di diventare mistico.

Lo diventa nel momento in cui fa la scelta di curare, coltivare, far crescere il suo rapporto con l’Altro da sé.

E, a partire da questa scelta, da questa decisione iniziali, che alcuni definiscono (a mio avviso efficacemente) col termine “illuminazione”, ogni giorno diventa un poco più consapevole di sé e del mondo che lo circonda, ogni giorno stringe un rapporto più forte e più stretto con l’Altro da sé.

Il mistico, dunque, non è (in primo luogo o necessariamente) l’uomo strano, stravagante, un po’ folle, che è diventato (e ancora è) nell’immaginario collettivo. Strutturalmente diverso cioè dagli altri uomini.

Il mistico, anzi, nella mia visione delle cose non è neanche necessariamente l’uomo religioso, che dotato della fede in un Dio trascendente, dedica la sua vita (o la gran parte di essa) alla contemplazione di questo Dio che lo trascende.

Il mistico è, invece, per me un uomo come tutti gli altri, che però decide di iniziare un cammino (quello della crescita interiore, cioè della crescita dei propri livelli di consapevolezza) che la maggior parte degli altri uomini evita di iniziare. Che anzi non si pone neanche il problema di iniziare e di compiere.

Il mistico, dunque, lungi dall’essere un uomo che rinuncia alla sua umanità, è l’uomo che realizza al massimo le sue potenzialità di essere umano, cioè di crescita dei suoi livelli di consapevolezza, ovverossia di quel quid che lo differenzia dagli altri animali.

Il mistico è, infatti, colui che diventa, che mette in atto, che realizza ciò che ogni uomo è in potenza, ciò che ogni uomo è chiamato a realizzare. Ma che il più delle volte trascura di realizzare.

Oppure avvia e poi lascia incompiuto. Per pigrizia, per ignavia o per insipienza. O, più spesso, per un intreccio di tutte e tre queste cose assieme.

In altre parole e in estrema sintesi, il mistico non è, in primo luogo e nella sua essenza, il monaco che si chiude nel monastero e meno che mai l’eremita che va nella grotta in montagna.

Non lo è mai stato, ma ancora di più non lo è oggi, che queste scelte un po’stravaganti sono quasi del tutto cadute in disuso.

Il mistico è, invece, un uomo, un qualsiasi uomo, che immerso nella vita quotidiana di tutti gli altri suoi simili, decide di non lasciarsi stordire e confondere dai rumori, dal chiasso, dalla frenesia che lo circonda, per conservare ben custodito dentro di sé un foro interiore e coltivarlo dovunque e in ogni momento come il suo bene più prezioso.

Questo è il mistico per me: l’uomo realizzato, l’uomo sempre presente a se stesso, l’uomo che, pur immerso e confuso nella folla, non si lascia mai conformare dalla folla, l’uomo perfettamente inserito nella società, ma allo stesso tempo l’uomo libero, autonomo, indipendente nei suoi giudizi, mai pecora nel gregge.

Giovanni Lamagna

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Post scriptum

Etimologia dei termini “mistico”, “mistero” e “iniziato” (da Wikipedia).

Il termine italiano “mistico” deriva da quello latino mystĭcus; e questo dal greco antico μυστικός (mystikós), che in questa lingua indica ciò che è relativo ai misteri propri dei culti iniziatici.

In lingua italiana il termine “mistero” indica ciò che sfugge alle normali possibilità di conoscenza, quindi ciò è “enigmatico”, oppure ciò che è indicato come “segreto”. “Mistero” deriva dal termine latino mystērĭum, che deriva a sua volta dal greco antico mystḕrion (μυστήριον).

Ma sia il termine mystikós (μυστικός) che il termine mystḕrion (μυστήριον), derivano dal termine greco antico mýstēs (μύστης), che significa “iniziato”.

Per inquadrare correttamente l’origine greco antica di questi termini occorre, infatti, ricordare, con Walter Burkert (1989) la loro correlazione col termine latino initiatio. Dal momento che “… i misteri erano cerimonie di iniziazione, culti nei quali l’ammissione e la partecipazione dipendono da qualche rituale personale da celebrare sull’iniziando. La segretezza e, nella maggior parte dei casi, un’ambientazione notturna sono elementi concomitanti di questa esclusività.

Il termine mýstēs (μύστης) deriva da μύω (mýo; “celare”). E questo dall’atto di socchiudere gli occhi, che è tipico di chi prega, va in contemplazione e accede al mistero, al sacro. Quale entità che è allo stesso tempo la dimensione più profonda dell’essere e qualcosa di separato da esso; o, perlomeno, dalla sua manifestazione superficiale ed ordinaria. E perciò misteriosa, segreta, colta e sperimentata solo da pochi iniziati.