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Libertà.

Dobbiamo tutti comportarci come se fossimo totalmente liberi e artefici del nostro destino.

Ma dobbiamo anche sapere che in realtà non lo siamo affatto o lo siamo molto, ma molto poco.

Perché ognuno di noi è, invece, condizionato (se non determinato) da mille e uno fattori.

Forse (ma non ne sono manco tanto sicuro) l’unica vera libertà che abbiamo è – come disse Sartre – quella di “fare qualcosa di ciò che gli altri hanno fatto di noi”.

“Libertà” – come si può immaginare – molto limitata, se non addirittura (anche questa) del tutto illusoria.

© Giovanni Lamagna

Sulla elaborazione di un lutto.

Quando si vive un lutto (cioè il dolore profondo che ci colpisce per la perdita di qualcuno o qualcosa a cui eravamo legati da amore) il primo passo per elaborarlo (e, quindi, per uscirne, per superarlo) non è quello (come molti pensano) di rimuovere, dimenticare, allontanare il pensiero, l’immagine dell’oggetto amato che si è perduto.

Ma piuttosto il contrario: il primo passo dovrebbe essere quello di renderlo ancora più presente nella nostra memoria e nella nostra coscienza, fino a farlo diventare così parte di noi, da non sentire quasi più il bisogno della sua presenza fisica e, quindi, attutire, addolcire il dolore che la perdita di questa presenza causava.

Forse è questo il processo psichico a cui alludeva Gesù, quando, poco prima di esser preso prigioniero e sottoposto al martirio del Golgota (fatti che Gesù sapeva bene sarebbero avvenuti di lì a poco), disse ai suoi discepoli: “Ma io vi assicuro che per voi è meglio se io me ne vado” (Vangelo di Giovanni; 16, 7).

Evidentemente il suo “andare via”, quindi la perdita della sua presenza fisica, il lutto che questo avrebbe causato nei suoi discepoli, erano condizioni imprescindibili perché la sua presenza spirituale si radicasse ancora di più nei loro cuori; (“Perché, se non me ne vado, non verrà da voi lo Spirito che vi difende”; ibidem).

La sua morte, il suo allontanamento fisico, erano pertanto necessari, affinché potesse avvenire nei discepoli quello che di lì a poco Paolo di Tarso dirà essere avvenuto in lui: “Non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me.” (Lettera ai Galati; 2, 20).

A mio avviso, secondo la mia esperienza e per concludere questa breve riflessione, chi non vive il lutto in questo modo, cioè chi lo supera in modo eccessivamente frettoloso o addirittura lo rimuove del tutto, è destinato a rimanere con una ferita sempre aperta, che non si rimarginerà mai.

Nonostante egli voglia convincersi (o si sia magari convinto) di aver completamente dimenticato, rimosso dalla propria coscienza, l’oggetto d’amore perduto e, quindi, superato del tutto e definitivamente il dolore della sua perdita.

Questa speranza/convinzione si rivela ancora più falsa ed illusoria, quando la perdita avviene in seguito a un “tradimento” da parte della persona che egli/ella amava, a cui era profondamente legato/a.

In questo caso l’orgoglio ferito blocca un’adeguata interiorizzazione dell’oggetto perduto, addirittura provoca il suo rifiuto, la sua espulsione, il suo rigetto rancoroso dal proprio spazio interiore ed affettivo.

E ciò impedisce, per conseguenza, una soddisfacente elaborazione della perdita vissuta.

© Giovanni Lamagna

Rivoluzione e fratellanza.

Per l’ultimo Sartre – quello dell’intervista a Benny Levy, pubblicata nel libro “La speranza oggi” (Mimesis 2019) – l’idea di rivoluzione – in cui Sartre evidentemente ancora credeva o che (sarebbe meglio dire) alimentava ancora la sua speranza esistenziale – non è legata ad un atto, un evento specifico, cioè all’atto/evento insurrezionale nel quale sono inevitabili azioni cruente, di natura perfino terroristica.

Ma è piuttosto associata al messianesimo ebraico, cioè al processo intrinseco alla Storia, al termine del quale gli uomini si vivranno come autentici fratelli.

La rivoluzione, insomma, come piena realizzazione della fratellanza tra gli uomini.

Speranza forse illusoria, perché del tutto utopica.

Ma che unica – anche per me, come per Sartre, si parva licet – riesce a dare un senso (o, almeno, una direzione di marcia) alla vita.

E, quindi, la voglia di camminare, procedere, andare avanti.

© Giovanni Lamagna