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Semplicità e semplicismo

Credo che occorra essere molto rigorosi e netti nel fare questa distinzione: una cosa è la semplicità, altra cosa è il semplicismo.

E che occorra perseguire (con costanza, con metodo, con tenacia) la semplicità come stile di vita.

Ma che sia necessario allo stesso tempo fuggire (con uguale costanza, tenacia e metodo) il semplicismo.

La semplicità, infatti, non si propone e, meno che mai, si sogna di negare la complessità, la difficoltà dei problemi, anzi della vita stessa.

Il semplicismo invece è proprio questo: la negazione, la rimozione della complessità, in nome dell’approssimazione, della faciloneria, del ricorso alle soluzioni (o, meglio, pseudosoluzioni) che a volte quasi sembrano voler negare l’esistenza stessa dei problemi.

La semplicità non nega la complessità e non parte dal presupposto che già sia tutto chiaro, anzi semplice, in partenza.

La semplicità ha come suo primo obiettivo quello di rendere chiaro il problema, che all’inizio, in molti casi, non lo è affatto.

E, per raggiungerlo, non si limita solamente a semplificare il linguaggio; cosa che, almeno in certi casi, è del tutto impossibile.

Cerca solo – almeno ci prova – di rendere il linguaggio quanto più accessibile al maggior numero di persone possibile.

Senza però mai farlo scadere al livello della superficialità, dell’approssimazione, se non della vera e propria banalità.

La semplicità, inoltre, non nega, né rimuove le contraddizioni (logiche, filosofiche, teoriche, materiali, economiche, sociali, culturali, politiche…) ed i conflitti che da esse derivano.

Prova solo ad individuare i percorsi, i metodi più adatti ed efficaci per affrontarle e possibilmente risolverle.

Nel suo procedere non fa mai credere, anzi non dà mai neanche lontanamente a intendere, che il suo cammino sia tutto rose e fiori, solo avanzamenti e successi, applausi e premi.

Ammette e riconosce i fallimenti, i punti di crisi, le sbandate, gli arretramenti, così come evidenzia gli avanzamenti e i risultati ottenuti.

Per concludere, la semplicità non è una dote di natura, quasi fosse costitutiva del codice genetico di una persona.

Ma è il frutto di una vera e propria ascesi, di un lavoro faticoso, a volte duro, innanzitutto su stessi.

La semplicità, in altre parole, è il punto di arrivo di un percorso intellettuale, etico e, perciò, spirituale, che tende ad affinarsi ed elevarsi sempre più nel corso del cammino; non è mai il punto di partenza di una vita.

Può e deve essere considerata, dunque, una virtù e non una qualità innata, come lo sono (per fare degli esempi) la bellezza fisica o il quoziente intellettuale.

Si diventa semplici, così come si diventa colti, saggi, educati, buoni…

Si nasce infantili e si corre il rischio di rimanere tali o di diventare dei sempliciotti, se non si fa un lavoro serio e, in molti momenti, duro su se stessi.

Non si nasce semplici, come qualcuno crede, confondendo (semplicisticamente, appunto!) la semplicità con la semplicioneria.

© Giovanni Lamagna

Sulla coerenza.

E’ la coerenza un valore?

Dipende. Dipende da che cosa intendiamo con il termine coerenza.

Se per coerenza si intende l’immobilità, la continuità assoluta, la ripetizione routinaria delle scelte e dei comportamenti che abbiamo sempre avuto, la stasi, allora essa è stupida. Non è affatto una virtù. Anzi è innaturale, è contro la vita, che per sua natura è, invece, (o dovrebbe essere) movimento, evoluzione, crescita, cambiamento.

Se per coerenza, al contrario, si intende la fedeltà ad alcuni principi e valori di fondo, che devono orientare la vita di ognuno di noi, se non vogliamo campare alla giornata o, addirittura, allo sbando, oscillanti come canne al vento, allora non reputo affatto la coerenza una stupidità, una nevrotica ossessione. In questo caso la coerenza è per me un valore da tenere in conto.

Intendiamoci, io arrivo a sostenere che si possono, nel corso della vita, cambiare anche gli stessi principi e valori etici di fondo che hanno orientato fino ad un certo momento la nostra esistenza.

Niente nella vita è da considerarsi immutabile, tutto può essere messo in discussione a ragion veduta. Anche gli stessi principi e valori di fondo. Quando si verificano situazioni nuove, da noi non previste né prevedibili, che ci impongono un cambiamento.

Ma, in questo caso, valgono a mio avviso due regole: 1) il cambiamento deve sopravvenire come esito di un travaglio interiore, non lo posso realizzare ex abrupto, con faciloneria (perché tanto “la coerenza non è in sé una virtù” e “solo gli stupidi non cambiano mai”); 2) devo essere in grado di motivare e argomentare il mio cambiamento e lo devo spiegare, illustrare agli altri, non lo posso dare per scontato ai loro occhi.

Viviamo, infatti, in società, intrecciamo continuamente delle relazioni, siamo legati agli altri e in una qualche misura siamo addirittura dipendenti da loro. Dobbiamo, dunque, rispetto anche a loro, oltre che a noi stessi.

Giovanni Lamagna