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La donna “zoccola” (2)

Quella che io definisco “zoccola” è, per me, la donna che promana e quasi esibisce sensualità e vitalità sessuale da tutti i pori; naturalmente, istintivamente, anche quando non se lo propone consapevolmente come scopo.

E’, quindi, una donna provocante, nel senso che “provoca” gli uomini coi quali entra in contatto; nel senso letterale del termine “provocare”, che significa “chiamare a sé”, attirare verso di sé.

E lo fa ricorrendo a modi e mezzi i più vari: con l’abbigliamento, il trucco, i gesti, i comportamenti, le parole.

E’, in altre parole, l’esatto contrario della donna pudica, che tende a nascondere la sua sensualità e la sua esuberanza sessuale, ammesso che le abbia.

E’ inoltre la donna che, quando fa l’amore, non aspetta che sia l’uomo a condurre le danze, come avviene nella maggior parte delle situazioni di coppia.

Ma prende lei stessa molte volte l’iniziativa e ingaggia col maschio una dinamica giocosa del tutta simmetrica e paritaria.

Da chiarire (ammesso che ce ne fosse bisogno) che io al termine “zoccola” non do nessun significato morale negativo; anzi!

Anche se sono pienamente consapevole che esso nel linguaggio comune lo ha.

Lo uso semplicemente perché rende bene l’idea, l’idea della donna di cui stiamo qui parlando; lo rende bene anche a coloro che giudicano negativamente questo tipo di donna; in quanto la considerano una donna di facili costumi.

Per me, invece, la “zoccola” è la donna che ha raggiunto il massimo grado di emancipazione, che si è pienamente liberata sul piano sessuale; e che, quindi, si pone nel rapporto col maschio su un piano di assoluta parità.

W le donne zoccole! Nel senso (ma – ripeto – non ci sarebbe neanche bisogno di ribadirlo) che io do a questo termine…

© Giovanni Lamagna

Uomini e donne, femmine e maschi.

Ho sempre sentito una fortissima attrazione, propensione verso le relazioni in generale e verso le relazioni con le donne in particolare.

Allo stesso tempo ho sempre avvertito una forte resistenza a chiudermi in un’unica relazione, del tipo “due cuori e una capanna”.

O, meglio, ne sono anche stato tentato; ho conosciuto, quindi, l’istinto a ricercare il calore e le sicurezze del nido.

Ma ben presto, dopo un po’ che l’avevo costruito, ho avvertito sempre il bisogno di riaprire le ali e tornare a volare.

Non certo per staccarmene e farne a meno del tutto, per scapparne, ma per non restarne prigioniero, impaniato, ingabbiato.

Credo che questa sia una modalità del vivere che caratterizza un po’ tutti noi maschi, chi più e chi meno, con le debite e naturali differenziazioni individuali.

Nella donna, invece, almeno nella maggior parte delle donne che ho conosciuto io, anche in quelle culturalmente più evolute, vedo, constato la tendenza opposta: a chiudersi, a fare nido e basta, a non uscirne se non per brevi e sporadiche capatine fuori, a rendersi così in qualche modo prigioniera dell’uomo con cui entra in relazione e della famiglia messa su insieme.

In questo tipo di donna – sarei stato tentato di scrivere nella donna in generale – domina insomma il sogno, la fantasia, quasi ancestrale, dell’amore eterno, se non, addirittura, dell’eterno innamoramento; un bisogno di sicurezza e di protezione illimitato che sovrasta ogni altro desiderio, che così viene soffocato, represso, ancor prima che affiori, che si manifesti.

Le potenzialità affettive, erotiche, sessuali, intellettuali di molte donne (se non proprio di tutte) rimangono in questo modo monche, amputate, se non allo stato puramente larvale, embrionale.

Poi la stessa donna magari se la prende con l’uomo, col maschio, che le tarperebbe le ali, che ne impedirebbe l’autonomia, l’emancipazione, la completa realizzazione.

Il che è anche vero; ma solo in una certa misura e non completamente; perché spesso in questo modo la donna scarica semplicemente il barile delle proprie responsabilità.

Infatti, il più delle volte è la donna stessa che rinuncia alle sue potenzialità: alla felicità possibile ma insicura e precaria, in nome di una sicurezza garantita, protetta, e però molte volte opaca, grigia, talvolta addirittura malinconica.

Insomma, a mio avviso e per dirla con un’affermazione famosa di Sartre, la donna è “per metà vittima, per metà complice…” della sua condizione sociale.

Sarà forse vero che – come dicono molti ancora oggi- la principale vocazione della donna è quella di diventare madre e che con la felicità di essere madre (sconosciuta ovviamente all’uomo) ella compensa le frustrazioni collaterali legate a questa sua propensione fondamentale? Può darsi!

Ma, se questo fosse vero, allora avrebbero ancora senso le sue rivendicazioni per la totale parità con l’altro sesso in tutta una serie di ambiti, dai quali finora storicamente è stata tagliata fuori?

Verrà dunque un tempo – a mio avviso – nel quale la donna dovrà fare i conti con quello che vuole realmente, con quello che veramente desidera: continuare ad essere fondamentalmente madre e quindi relegata nel ruolo principale di custode della casa, del nido familiare? oppure uscire anche lei dal nido e affrontare le perigliosità, i rischi, ma anche le occasioni e le opportunità che ne conseguono?

Credo che le donne (parlo qui della grande maggioranza delle donne e non delle ancora poche e rare avanguardie che si differenziano da questa maggioranza) non possano restare a lungo in mezzo al guado in cui si trovano, in questa sorta di ambivalenza antropologica che le caratterizza ancora oggi nel mondo contemporaneo, almeno qui in Occidente.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Capri revolution”.

Finalmente ho visto “Capri revolution”, l’ultima opera di Mario Martone, che avevo perso in prima visione: l’ho recuperato al cineforum che frequento il martedì. Un film esteticamente molto bello, intrigante, coinvolgente. E contenutisticamente molto complesso, che può essere letto su più livelli: storico, economico, sociale, culturale, politico…

Livello storico. Il film vuole raccontare il clima in cui avvenne lo scoppio della prima guerra mondiale, quando si incrociavano e convivevano pulsioni e ideali ingenuamente pacifisti con tendenze e istanze ciecamente interventiste; il bisogno di un lavacro che quasi purificasse l’umanità e la consapevolezza del disastro immane al quale si stava andando incontro, la felicità e l’allegria della bella epoque e l’atroce presentimento della imminente carneficina.

Livello economico. Il film descrive la realtà agricolo-pastorale degli inizi del secolo scorso e l’avvio del processo di industrializzazione, con tutte le forti contraddizioni che questo avvio ha comportato. Emblematico il fatto che il padre di Lucia (la protagonista del film) nasce contadino-pastore e poi, con l’insediamento dell’acciaieria di Bagnoli, da Capri si trasferisce a Napoli e diventa operaio metallurgico: per questo si ammala ai polmoni e muore di cancro.

Livello sociale. Il film evidenzia le forti disuguaglianze presenti anche in una piccola realtà come Capri. I contadini-pastori vivono ovviamente in una condizione di estrema povertà. I ceti medi benestanti si sono arricchiti essenzialmente grazie al commercio legato al turismo. I contadini-pastori tendono ovviamente ad elevare la loro condizione economico sociale entrando a far parte della classe media, soprattutto attraverso matrimoni combinati (tipo quello che i fratelli propongono e quasi impongono a Lucia).

Livello culturale. La popolazione indigena vive in una condizione di grave arretratezza culturale. In gran parte è analfabeta. Pensa e agisce in base a schemi bigotti e patriarcali. Ne è un esempio eclatante il modo in cui i due fratelli (specie il maggiore e specie dopo la morte del padre) trattano la giovane Lucia, protagonista del film, quasi come se fossero i suoi padroni, insofferenti (a voler usare un eufemismo) ai suoi desideri/tentativi di emancipazione (c’è qui un’eco anche delle nascenti istanze femministe).

Eppure Capri ospita una comunità (anzi una “comune”) formata da uomini, donne e bambini provenienti in massima parte dalle nazioni del nord Europa. Che hanno sposato la condizione economica prevalente dell’isola (quella agricolo-pastorale), come una via per ritrovare l’antica natura della condizione umana e recuperarne la genuinità, praticando il nudismo, la danza, la musica, il canto, la pittura (le arti, insomma, nelle varie forme) e una sorta di religione pagana adoratrice della natura: il sole, la luna, il mare, le rocce…), di cui l’isola di Capri è quasi topos archetipo.

Ovviamente la presenza di una piccola comunità, così anomala e trasgressiva, all’interno della comunità più vasta dell’isola, del tutto tradizionale e conservatrice, ingenera il conflitto che sempre si genera tra l’istanza progressista e quella conservatrice. Anche se Lucia, la giovane pastorella di capre protagonista del film, si pone come l’anello di congiunzione tra le due istanze e alla fine entrambe le supera.

Lucia è attratta e turbata allo stesso tempo dai comportamenti degli abitanti della Comune: prova insieme ripugnanza e curiosità per il loro modo di vivere, ma alla fine ne è conquistata, abbandona la casa dove abitava assieme alla madre e ai fratelli e va a vivere nella comunità.

Livello politico. Un altro elemento dello scontro culturale, che in questo caso diventa anche politico, è dato dal rapporto tra quello che è un po’ il guru della comunità, Seybu (ascetico, contemplativo, naturista, vegetariano, trasgressivo sul piano dei costumi sessuali, ma ascientifico nella cura delle malattie, fanaticamente alla ricerca di fantomatici rimedi naturali e omeopatici) e Carlo, il giovane medico giunto da poco a Procida (uomo di scienza rigoroso, generoso, politicamente progressista, vagamente socialista, ma sostenitore dell’intervento in guerra, fanaticamente convinto che la sconfitta degli imperi centrali avrebbe provocato un rimescolamento dei rapporti sociali e favorito, quindi, l’emancipazione delle classi subalterne).

Il film è l’intreccio e la combinazione pregevole di questi diversi livelli di lettura di una storia, che trova però i suoi pilastri, i suoi fondamenti, nello spazio (Capri, luogo magico per antonomasia, per il suo paesaggio, per il clima, il sole, il mare, il cielo, la luce, la vegetazione, le rocce…) e nel tempo in cui si svolge, tempo così fortemente caratterizzato dall’idea di “rivoluzione”, come forse nessun altro mai.

Perciò Lucia è l’assoluta protagonista del film (interpretata da Marianna Fontana, un’attrice dal volto straordinariamente intenso, selvaggio e dolce, popolare e nobile: tale da sembrare estratto da un acquerello di Vincenzo Gemito).

Perché Lucia è figlia di Capri, della Capri tradizionale e conservatrice, ma allo stesso è capace di emanciparsi, dando una sua personale lettura e traduzione pratica della rivoluzione, che non saranno né quella del guru nordico pacifista-naturista, né quella del medico socialista scientista e interventista.

Lucia è capace di recuperare il rapporto primario con la madre. Che, in una delle scene finali, le dice “sapevo che saresti tornata” e, allo stesso tempo, “quando uscivi la notte, io ti vedevo, ma facevo finta di non vederti; quando uscivi la notte, ero un po’ anche io che uscivo con te”. E qui le due generazioni, rappresentate dalla madre e dalla figlia, sembrano trovare un punto di congiunzione.

Ma subito dopo la stessa Lucia prende il piroscafo e parte non si sa per dove, verso un luogo indefinito; in ogni caso, per viversi la sua libertà ed emancipazione, oramai definitivamente e saldamente conquistate.

Giovanni Lamagna