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Libertà e libertinaggio

Con questa riflessione voglio chiarire un possibile equivoco, che può essere facilmente ingenerato da alcune mie posizioni nei riguardi delle relazioni erotiche e sessuali, quando non vengono correttamente intese.

L’ipotesi della “coppia aperta”, di cui mi sono dichiarato più volte fautore, si pone, regge, ha valore, solo nel caso di un rapporto che funziona, di un rapporto cioè in cui è ancora vivo il desiderio reciproco.

Non certo nel caso di un rapporto nel quale ognuno dei due partner oramai ignora completamente l’altro, si fa i cavoli propri, vive una vita del tutto sganciata da quella dell’altro/a.

Non ha senso, quindi, nel caso di un rapporto che è oramai morto nei fatti o, perlomeno, è del tutto disfunzionale; di quale “coppia aperta”, infatti, si potrebbe parlare, nei casi in cui la coppia di fatto non esiste più?

Fatta questa premessa, io sono convinto però che una coppia, per funzionare bene, ha bisogno – come condizione base per la sua esistenza – della libertà reciproca dei suoi due membri, allo stesso modo di cui i polmoni hanno bisogno dell’aria per respirare.

Ma, anche qui intendiamoci bene, la libertà è altra cosa – smontiamo quest’altro equivoco – dal libertinaggio.

Il libertinaggio, infatti, (quasi sempre) è unilaterale e viene imposto da uno dei due partner all’altro; la libertà, invece, è bilaterale, è una scelta, consapevole e persino formale, fatta da entrambi i partner.

Mi rendo conto, sono pienamente consapevole, che non è facile condividere questa visione dei rapporti amorosi; e che è ancora meno facile metterla in pratica.

Ma l’esperienza mi insegna che, se il rapporto non viene vissuto in questo modo, quasi inevitabilmente (se non inevitabilmente) finisce nelle secche della routine.

Che è, poi, l’anticamera dell’esaurimento sostanziale, se non anche formale, di una relazione erotico-sessuale.

Basta vedere come vivono la maggior parte (non tutte, ma la maggior parte, sì) delle coppie, dopo un certo numero di anni.

Nella migliore delle ipotesi i due membri della coppia sono diventati amici fraterni; nella peggiore si sopportano appena e con molta fatica; in alcuni casi arrivano addirittura ad odiarsi e, perfino, alla violenza.

Certo – anche di questo sono ben consapevole – la maggioranza di noi non è disposta ad accettare questa realtà dei fatti e si ostina a credere nel mito/sogno dell’amore romantico; cioè dell’amore esclusivo, se non anche eterno.

E così i più vanno a sbattere, magari più volte nella loro vita, contro la realtà che – dura come roccia – smentisce quel mito e quel sogno.

Per cui la maggior parte delle società (anche quelle contemporanee, anche quelle culturalmente più evolute, secondo gli schemi della cultura occidentale) continuano (non so se più ipocritamente o più stupidamente) a confermare quel mito e quel sogno.

Oppure a praticare (se non proprio a teorizzare) una libertà di costumi, che vale (ancora, come già in epoche passate) solo per i maschi e non (come sarebbe giusto che fosse) per entrambi i sessi.

Donde la domanda che mi pongo da tanto tempo e la cui risposta a me pare oramai scontata: è sana una società che vive sulla ipocrisia di valori a cui non riesce a mantenersi fedele e sulla ingiustizia di una millenaria disparità tra maschi e femmine?

© Giovanni Lamagna

Esiste la natura umana?

Esiste un’essenza umana rintracciabile in ciascun uomo e tale che possa essere definita “la natura umana”?

A questa domanda Sartre risponde di no. A suo avviso non esiste un’essenza umana comune a tutti. Esiste, invece, una condizione umana universale comune a tutti, che però “non è data” una volta per tutte”, ma è in perpetua, continua “costruzione”, evoluzione.

Io, francamente, penso che dietro questo ragionamento ci sia (non voglio dire “solo”, dico però “soprattutto”) un gioco di parole.

Per me la nozione di “condizione umana universale” equivale in buona sostanza a quella di “essenza” e di “natura umana”.

Se poi Sartre ha inteso distinguere i due concetti, solo perché quello di “essenza” e quello di “natura” lasciano pensare ad un’ipostasi ferma e immutabile, talmente universale, generale ed astratta da annullare le differenze tra i fenomeni concreti che ad essa fanno riferimento, allora capisco il senso della sua negazione.

Ma questo non mi porta a dire che non esiste una “natura umana” o, meglio, che non se ne possa sostenere il concetto.

Per me, dunque, si può parlare di “natura umana”. Nel senso che, al di là delle differenze che sussistono tra i vari e singoli esseri umani, esiste un quid , cioè delle costanti, un denominatore comune (“un essenza”, appunto!) che accomuna tutti gli uomini. Se non fosse così, Sartre non potrebbe neanche parlare dell’esistenza di una “universale” condizione umana.

Ovviamente anche io penso (ed in questo sono assolutamente d’accordo con Sartre) che la cosiddetta “natura umana” non possa e non debba essere considerata come un’ipostasi assolutamente statica e immutabile, nello spazio e nel tempo. Come, invece, (forse o senza forse) è stata considerata in passato, almeno fino agli inizi dell’Età moderna, dalla gran parte dei filosofi premoderni.

Io credo (al contrario di quello che pensa Sartre) che noi possiamo considerare ed ammettere l’esistenza di un nucleo originario o almeno potenziale (l’essenza) della natura umana, cioè di ciò che accomuna tutti gli uomini, sotto tutte le latitudini, e di ciò che li ha accomunati in passato, in tutte le epoche storiche.

Ma dobbiamo riconoscere (e in questo concordo con Sartre) che questo nucleo “essenziale” assume poi vesti e forme diverse a seconda dei contesti antropologico-culturali, a seconda dei luoghi geografici (tribù, popoli, nazioni…) e delle diverse epoche storiche.

E’, insomma, un’essenza in divenire, in continua evoluzione, non statica e immutabile, come forse una certa filosofia del passato e, soprattutto, una certa morale l’avevano intesa, identificando il particolare con l’universale.

Per dirla tutta e fuori dai denti, identificando la cultura occidentale (o, addirittura, la cultura di determinati popoli occidentali egemoni in una certa fase storica) con l’essenza stessa della cosiddetta “natura umana”.

A voler parafrasare un filosofo spagnolo del secolo scorso, Xavier Zubiri, il quale sosteneva che “noi siamo sempre noi stessi, ma non sempre gli stessi”, potrei concludere questa mia riflessione con la seguente affermazione: l’Umanità è sempre se stessa, ma non è sempre la stessa sotto tutte le latitudini, in tutte le epoche storiche e nei diversi individui che la compongono.

© Giovanni Lamagna