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L’essere umano o è “religioso” o semplicemente non è.

Chi rigetta, in modo frettoloso e saccente, non solo le religioni storiche, ma anche la stessa “dimensione religiosa dell’esistenza”, in nome dello scientismo, del laicismo, dello sviluppo del pensiero umano (in modo particolare di quello filosofico), della secolarizzazione delle società moderne, dimostra, a mio avviso, di essere persona superficiale, banale, che non tiene conto della complessità della Storia e dell’animo umano.

Non ci sono dubbi (chi può negarlo? manco l’uomo di fede può farlo!) che le religioni storiche (soprattutto in certe epoche storiche e in certi contesti geografici) abbiano prodotto disastri immani, abbiano in molte occasioni coartato il libero pensiero e le potenzialità dell’umano, provocato carneficine e oppressioni orrende.

Ma non ci sono manco dubbi che esse siano state per una lunga fase della vicenda umana una delle componenti principali, se non la principale, del suo sviluppo, della sua crescita, del suo porsi domande e tentare di darsi risposte, senza le quali l’essere umano non può definirsi tale, si riduce al semplice genere di cui pure è parte.

Le religioni storiche hanno indubbiamente partorito molti mostri e angherie, ma hanno anche ispirato innumerevoli eroi ed atti eccelsi di santità.

Non a caso è nell’ambito della vicenda storica delle religioni che è maturata la regola aurea del “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te e non fare loro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”, su cui si fondano tutte le etiche umane, nelle loro varie e molteplici forme, sotto qualsiasi parallelo e lungo qualsiasi meridiano.

Certo poi le religioni storiche hanno spesso dato origine anche a contrasti e conflitti asprissimi, feroci, perfino a guerre interreligiose, che è il colmo dei colmi.

Ma questa è solo l’altra faccia della Luna, quella in ombra; che non può farci dimenticare la sua prima faccia, quella a noi visibile; o viceversa, a seconda di come vogliamo valutare le luci e le ombre che si accompagnano in ogni vicenda umana, quindi anche in quella storica delle religioni.

Negare o banalizzare la stessa “dimensione religiosa dell’esistenza” (con le domande fondamentali sul “senso della vita” che essa pone), andando ben oltre l’analisi e la critica delle forme da essa assunta nella storia e nella geografia, significa negarsi, chiudersi ad una dimensione che è la più profonda che possa sperimentare l’essere umano, a prescindere dalle risposte che egli sarà (o non sarà) in grado di darsi.

Domande alle quali nessuna scienza, nessun nuovo ritrovato tecnologico e manco le strutture sociali e politiche riusciranno mai (come la Storia, soprattutto quella recente, ha dimostrato in abbondanza) a trovare risposte; perché queste riposano, sono nascoste nel cuore di ogni singolo individuo.

E niente e nessuno mai potrà scovarle al suo posto, risparmiargli il cammino (spesso faticoso e sofferto, a volte persino drammatico) della ricerca e del ritrovamento, che non sarà mai scontato, mai certo, ma affidato sempre ad un incedere precario e incerto, del tutto individuale e personale.

In altre parole, una cosa è demitizzare il mito (o i miti) che si nascondono dietro le religioni storiche, ne hanno fondato la nascita e perpetuato la durata nel tempo; altra cosa è negare la verità profonda, la funzione simbolica, che si nasconde sempre dietro ogni mito, tutti i miti che hanno accompagnato da sempre la vicenda umana.

Infine, una cosa è aggiornare e modernizzare i rituali che fanno parte delle religioni storiche e che hanno arricchito e vitalizzato, pur con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni. la vita delle società trascorse, altra cosa è eliminare del tutto i rituali, l’idea stessa del rito, dalle nostre società contemporanee.

O banalizzarli (che cosa sono alcuni happening mondani – esclusivi o di massa che siano – o alcune manifestazioni sportive se non dei rituali dell’epoca d’oggi?) al punto da renderli ininfluenti o del tutto insignificanti dal punto di vista delle risposte che i riti di una volta intendevano dare alle domande di senso che provenivano dagli individui e dalle società di cui erano prodotti storici.

L’uomo (anche l’uomo contemporaneo, ipermoderno, postmoderno) non può fare a meno né di miti né di riti; ne va della sua vita spirituale, che senza di essi ne risulta gravemente impoverita.; e cosa sono i miti e i rituali se non l’essenza, l’anima stessa della “dimensione religiosa dell’esistenza”?

Per cui – ritornando a bomba – il rapporto dell’uomo con la/e religione/i non può essere quello di chi butta il bambino con l’acqua sporca quando svuota la vasca da bagno.

L’uomo certamente non può fare a meno di interrogarsi – continuamente e in maniera lucidamente, spietatamente laica – sul suo “essere religioso”; ma alla fin fine non può fare a meno di rinunciare del tutto a questa sua natura profondamente, intrinsecamente religiosa.

Perché il suo stesso interrogarsi, porsi dubbi e domande, il suo stesso depurare miti e rituali di un tempo, fanno parte intrinseca di questa sua connaturata e profonda religiosità.

Che tende a “rilegare” (sta qui l’etimo della parola “religione”) tutte le cose, anche quelle apparentemente lontanissime tra di loro; a trovare – in altre parole – l’essenza e l’unità del Tutto.

© Giovanni Lamagna

Nel giorno degli innamorati una riflessione (dolce e amara) sull’innamoramento e l’amore.

Ci si può innamorare di una persona per quella che è già.

Ma ci si può innamorare anche per quella che potrebbe essere o diventare e non è ancora.

Sono due forme di innamoramento: entrambe presenti nella psicologia umana.

Io credo che nell’innamoramento queste due modalità non si escludano affatto, come molti – anche insigni psicologi e psicoanalisti – credono; ma siano, invece, perfettamente compatibili.

L’una è l’altra faccia dell’altra, necessarie – entrambe – l’una all’altra.

Quando ci si innamora, ci si innamora innanzitutto (e indubbiamente) di una persona come essa è già.

Ma ci si innamora anche (e altrettanto indubbiamente) di ciò che ella promette di diventare, cioè del suo essere potenziale.

Tanto è vero che, spesso, quando questa persona tradisce questo suo potenziale, rinuncia cioè a diventare quella che poteva essere e non era ancora, si smette di amarla.

Magari si resta ancora fisicamente, materialmente con lei, perché troppi interessi – di natura, ad esempio, anche banalmente economica – ci legano reciprocamente.

Ma non lo si è più spiritualmente, perché non si cammina, non si cresce più assieme; l’amore in questo caso sfiorisce e il rapporto scade in una stanca, monotona routine.

Quando non diventa addirittura luogo di logoranti contrasti, di ripetitive ed estenuanti discussioni, in certi casi persino di violenti conflitti, talvolta anche fisici.

© Giovanni Lamagna

Riflessioni da me raccolte nel corso della lettura di “La consulenza filosofica” di Gerd B. Achenbach Feltrinelli Editore

10 marzo 2020

Sto leggendo il libro di Gerd B. Achenbach, “La consulenza filosofica”. Sto alle prime 29 pagine, quindi non posso dire di aver compreso di che si tratta. Ma una prima impressione (forte) me la sono fatta. Adesso la devo verificare.

L’impressione iniziale è che dietro questa formula (“consulenza filosofica”) ci sia una notevole “presunzione” (quella di voler sostituire – addirittura! – la psicoterapia) e, allo stesso tempo, anche una considerevole “confusione” (quella di scambiare il terreno dei conflitti emotivi – che è proprio della psicologia e delle eventuali psicoterapie – con quello della costruzione di una propria “visione del mondo” – che è proprio del pensiero e, quindi, della filosofia e – perché no? – della consulenza filosofica).

16 Marzo 2020

Continua la mia lettura del libro di Achenbach. Sto ancora alle prime 63 pagine, ma mi sono già fatto una mia idea sufficientemente solida di cosa è o può essere una consulenza filosofica.

Innanzitutto è una cosa molto diversa da una psicoterapia; anche se per psicoterapia potremmo intendere qui decine di cose diverse, a seconda delle scuole di riferimento.

E, comunque, anche nella loro estrema diversità le psicoterapie (perfino quella “comportamentale”) si occupano prevalentemente del mondo degli istinti, delle pulsioni, delle emozioni, dei sentimenti. Anche se tendono a farlo con metodi, pratiche e terapie (appunto!) molto diversi tra di loro.

La consulenza filosofica, invece, per quello che ne ho capito, si occupa in prevalenza del mondo della ragione, del pensiero, della coscienza, della consapevolezza.

Le psicoterapie tendono a “guarire” il mondo psicoaffettivo, laddove ci sono conflitti, contrasti, tra diverse pulsioni ed emozioni: tendono a mettere a posto la sfera psicoaffettiva dell’individuo.

La consulenza filosofica interviene sul piano della visione del mondo che ciascun individuo – consapevole o meno che ne sia . si è formato nel corso degli anni e ne guida le azioni e le scelte.

Per verificarne le aporie e le incongruenze (eventuali) e risolverle in una “teoria” più coerente, più organica, meno internamente conflittuale e fragile.

18 marzo 2020

Achenbach, tra pag. 72 e 75, rivolge delle critiche al marxismo e alla psicoanalisi come terapie (la prima) della struttura economico, sociale e politica della società e (la seconda) della struttura psichica dell’individuo, della persona.

Che in parte – almeno in parte – sono giustificate, hanno un loro fondamento.

Rivelano però tutti i loro limiti e perfino una loro ridicola presunzione quando pretendono di mettere in discussione il valore stesso di alcune analisi fondamentali che il marxismo e la psicoanalisi hanno fatto della struttura economico-sociale del capitalismo (il primo) e della struttura psichica dell’individuo (la seconda).

In altre parole può darsi (anzi è senz’altro vero) che il marxismo e la psicoanalisi non si siano rivelate efficacissime come terapie delle malattie sociali e individuali. Questo dato di fatto però non invalida né l’uno né l’altra come strumenti di analisi e diagnosi di queste malattie.

20 marzo 2020

La consulenza filosofica a mio avviso non potrà mai sostituire, come sostiene Achenbach, le psicoterapie del profondo.

Perché la prima si occupa del pensiero e cerca di addestrarlo ad un suo utilizzo ottimale: è sostanzialmente un esercizio della mente e delle sue facoltà razionali, ovverossia delle facoltà superiori dell’uomo.

Le seconde, invece, si occupano essenzialmente di “ciò che sta sotto”, del profondo dell’uomo e non del superiore, dell’inconscio, delle istanze emotive e talvolta irrazionali, che spesso, senza che egli ne sia consapevole, guidano le azioni e il comportamento dell’uomo.

22 marzo 2020

Questo Achenbach, a mio avviso, fa parecchia confusione. Dice anche cose interessanti, per carità. Per cui la sua lettura è utile, mi offre degli stimoli di riflessione.

Ma dimostra di conoscere poco la psicoterapia, mentre la critica. Tra l’altro con la sottesa pretesa di sostituirla con la consulenza filosofica.

Ad esempio, secondo lui, la consulenza psicologica “espliciterebbe la logica inconscia dell’anima” “con conoscenze e teorie psicologiche”… “con Freud e Jung” (pag. 96)

Insomma, secondo Achebanch uno psicoterapeuta col suo paziente si metterebbe a discutere di Freud e di Jung e delle loro teorie psicologiche: in questo consisterebbe la psicoterapia. Ma si possono dire bestialità simili?

24 marzo 2020

Acheenbach sostiene (pag. 104): “… nella consulenza (filosofica)… si ha a che fare con persone che… non progrediscono, che non sanno andare oltre, che sono giunte a un punto dal quale non si va più avanti”.

Mi chiedo: ma questa non è la stessa situazione in cui si trova chi cerca una consulenza psicologica, di chi inizia un percorso terapeutico?

E la risposta mi sembra senz’altro affermativa.

Allora cosa distingue una consulenza filosofica da una psicoterapia?

25 marzo 2020

Io condivido parecchie cose di quelle che scrive Achenbach sul modo di intendere la filosofia.

In modo particolare condivido la sua polemica contro la filosofia accademica, incapace di confrontarsi coi problemi reali dell’esistenza, quelli della gente comune.

Condivido quindi la sua istanza di apertura alla vita, al mondo, alla società, che sta fuori dalle aule universitarie.

Non condivido assolutamente, invece, l’idea che la consulenza filosofica possa sostituirsi alla psicologia, alla psicoanalisi, alle psicoterapie, nelle loro varie versioni.

Posso condividere alcune critiche che Achenbach fa alla psicoanalisi e alla sua traduzione terapeutica. Non posso però condividere assolutamente l’idea che la consulenza filosofica – almeno per quello che ne ho capito io – possa prendere il posto della psicoterapia.

29 marzo 2020

Al di là del merito delle cose che dice, il linguaggio di questo Achenbach non mi piace per niente.

E’ accademico (eppure parla spesso contro l’Accademia!), è pomposo, involuto, spesso oscuro.

Lontanissimo, insomma, dal linguaggio che prediligo io.

30 marzo 2020

Questo Achenbach mi sta stufando. Parla, parla… ma in fondo dice ben poco.

Dice male della filosofia accademica e su questo concordo pienamente. Anche se mi viene il dubbio che ne parli male più per invidia (perché voleva entrare a farne parte) che per reale differenziazione.

E dice male della psicoterapia. Come se esistesse LA psicoterapia  e non LE psicoterapie. Ma soprattutto attribuendo alle psicoterapie pretese che esse non hanno e non hanno mai avuto; tipo quella di offrire certezze ai loro pazienti.

9 aprile 2020

A conclusione della lettura di questo libro posso dire che essa è stata poi tutto sommato abbastanza interessante. In modo particolare per due ragioni:

1.mi ha permesso di riflettere in modo abbastanza approfondito su quello che è la filosofia per me;

  1. mi ha stimolato a cogliere le differenze che ci sono (e sono a mio avviso notevoli) tra una consulenza filosofica e una psicoterapia.

© Giovanni Lamagna