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Linguaggio e contenuti.

La prosa di Sigmund Freud è – quasi sempre – di una chiarezza adamantina, esemplare.

Eppure è utilizzata per esprimere concetti niente affatto semplici, meno che mai banali, anzi spesso molto complessi.

Dovrebbe essere di lezione, quindi, per quanti fanno generalmente ricorso ad un linguaggio oscuro, anche per esprimere concetti tutto sommato abbastanza semplici o, addirittura, elementari.

Come se si compiacessero nel non essere compresi.

E come se l’acutezza, la profondità e la complessità dei contenuti si misurassero dal linguaggio poco chiaro o addirittura incomprensibile ai più.

© Giovanni Lamagna

Eziologia delle nevrosi: metapsicologica o biologica?

Nel suo libro “I freudiani eretici” (Ponte alle grazie; 2020), Michel Onfray così scrive a pag. 118:

“Reich non comprende come si possa ignorare questa duplice lezione (del neurologo francese Charcot e del medico viennese Chrobak): le nevrosi sono causate da una sessualità insoddisfacente o inesistente.

La loro eziologia non ha nulla a che vedere con la metapsicologia freudiana, in altre parole: con l’eredità primitiva trasmessa per filogenesi, il complesso di Edipo, e altri dogmi che tirano in ballo l’angoscia di castrazione, la scena primordiale infantile, o la teoria della seduzione.

La sessualità non è questione di psichismo, ma di biologia inscritta in un mondo reale, concreto, vero – e non nel cielo delle idee freudiane.

Reich rifiuta il lettino nello studio prospero (qui allude allo studio per alto borghesi di Freud al 19 della Berggasse di Vienna) e scende per strada: la questione sessuale implica una risposta politica.

Vorrei commentare questo passaggio del libro di Onfray ed esprimere alcuni miei distinguo rispetto alle tesi che vi sono espresse, distinguo che in alcuni casi sono veri e propri dissensi. Il libro è per altri versi molto interessante.

1.E un po’ banale e semplicistico affermare che “le nevrosi sono causate da una sessualità insoddisfacente o inesistente.”

Sia chiaro, credo anche io che le nevrosi, tutti i tipi di nevrosi (quale più, quale meno), abbiano a che fare con la sessualità.

Non credo, però, affatto che una psicoterapia possa curare e guarire le nevrosi spingendo semplicemente il paziente a vivere una vita sessuale soddisfacente.

Perché, se fosse questa la soluzione (semplice) di tutti i suoi problemi, sono sicuro che il paziente ne porrebbe subito, immediatamente un altro di problema: come faccio a vivermi la mia sessualità, se non ne sono capace, se mi sento bloccato sessualmente?

Si innescherebbe a questo punto e con tutta evidenza un circolo vizioso irresolubile.

2. La metapsicologia di Freud, su cui Onfray ironizza spessissimo, considerandola campata puramente in aria, a questo punto recupera pienamente la sua funzione.

Il recupero nella memoria dei traumi subiti nell’infanzia (che hanno provocato complessi, angosce, ingannevoli seduzioni… e bloccato, quindi, in maniera più o meno grave, la sfera e le funzioni sessuali) mira proprio a sbloccare tali funzioni e a rendere possibile e soddisfacente una vita sessuale prima insoddisfacente o addirittura del tutto inesistente.

Che non sarebbe possibile senza la emersione, il passaggio dall’inconscio al conscio, dei ricordi legati ai traumi vissuti nell’infanzia e la conseguente presa di consapevolezza dei blocchi psichici venutisi a creare e da sciogliere, eliminare con il lavoro dell’analisi.

3. Questa seconda riflessione è la premessa per sostenere che la sessualità umana, pur avendo una indubbia e ovvia radice biologica, non si riduce però alla pura e semplice biologia, ma ha a che fare anche (e non poco, anzi moltissimo) con lo psichismo; contrariamente a quanto invece sostiene Onfray.

4. D’altra parte, se non fosse così, se la sessualità umana avesse a che fare semplicemente con la biologia (col mondo concreto, come dice Onfray, quasi che il mondo psichico fosse per lui da collocare nel “cielo delle idee”), non avrebbe senso neanche il richiamo di Reich a dare alla “questione sessuale… una risposta politica”.

Se la sessualità umana si risolvesse (come quella animale) tutta nella biologia, essa non soffrirebbe mai di blocchi nevrotici.

E, quindi, non solo non avrebbe bisogno (almeno in certi casi) di psicoterapie, ma ancora meno avrebbe bisogno di “una risposta politica”.

A quanto mi consta, infatti, gli animali (che hanno una vita puramente biologica) non soffrono di nevrosi e non fanno ricorso alla politica.

© Giovanni Lamagna

Paura e desiderio nei rapporti

21 maggio 2015

Paura e desiderio nei rapporti.

Ci sono persone che nei rapporti (anche e, forse, specie in quelli più significativi) passano più tempo e consumano più energie a schivarsi, a nascondersi, a fuggire dall’altro che ad aprirsi, a mettersi in gioco, a farsi mettere in discussione dall’altro.

E lo fanno in diversi modi, tutti tipici, sintomatici, abbastanza trasparenti per chi ha l’occhio appena un po’attento e addestrato a riconoscerli: evadono discorsi appena iniziati, quando diventano un poco più approfonditi e impegnativi; parlano di altro o di altri e non di sé o di quello che riguarda il rapporto in cui sono coinvolti; si danno impegni (per carità, encomiabili, altruistici, generosi) a volte perfino faticosi e impegnativi, ma non hanno mai (o quasi mai) tempo da dedicare a momenti più piacevoli e rilassati di intimità (ad esempio, sessuale).

Queste persone nel rapporto utilizzano sempre (o quasi sempre) una maschera o (peggio) una corazza, per cui si mantengono sempre a una certa distanza (potremmo dire di sicurezza), in modo da non essere coinvolti mai fino in fondo, da non mettersi mai completamente a nudo.

Non sanno cosa si perdono!

Verrebbe da chiedersi, allora, perché continuano a stare nel rapporto, ad essere interessate ad esso, perché ne avvertano il bisogno (a volte perfino ossessivo e compulsivo), se poi (come istanza fondamentale) se ne difendono, in qualche modo se ne tengono a distanza.

La risposta sta, secondo me, nel fatto che il rapporto (anche questo tipo di rapporto) comunque corrisponde a un bisogno, se non a un vero e proprio desiderio: il bisogno di sicurezza, di protezione, di compagnia, di vicinanza, di conferma, di rassicurazione, di riconoscimento, di esorcizzazione della paura della solitudine.

Ovviamente, ridotto solo a questo, non soddisfa l’altro bisogno implicito che c’è in ogni rapporto: il bisogno della scoperta, della ricerca in comune, dell’arricchimento reciproco, della crescita di sé attraverso l’altro, del cambiamento e dell’innovazione.

Ogni rapporto, infatti, oltre che dare rassicurazione (anzi proprio perché dà rassicurazione) contiene in sé anche una sfida implicita: la sfida ad uscire dal proprio guscio, dalla propria corazza protettiva, a gettare la maschera, alla ricerca del proprio Sé più vero, a trasgredire (nel senso letterale dell’andare oltre), a non accontentarsi di ciò che si era e di ciò che si è.

Ecco cosa si perdono le persone che nel rapporto si rintanano, come in una cuccia, invece di trovare il coraggio e l’energia per uscire allo scoperto: rinunciano alle avventure, alle scoperte (e, quindi, alle gioie) sempre nuove che la vita non mancherebbe certo di offrire loro, se vincessero le paure che le attanagliano, che le paralizzano.

Alle volte (mi verrebbe di dire: spesso) i nostri rapporti non ci aiutano e non ci spingono a superare queste paure, ma anzi le confermano, le cronicizzano, talvolta addirittura le consolidano, acuiscono.

Ci andiamo a cercare le persone che, anziché aiutarci e stimolarci in un cammino di crescita e di liberazione, fanno proprio il contrario: ci confermano, ci fermano, ci “fissano” nei nostri antichi complessi, mantenendo aperte (anziché guarirle) e, in certi casi, addirittura aggravandole le nostre antiche ferite.

Alle volte facciamo questo addirittura con la scelta del nostro terapeuta. Ci andiamo a cercare un terapeuta che, anziché prenderci di petto e “aggredire” i nostri problemi, le nostre nevrosi, ci gira attorno senza mai coglierne il cuore, asseconda in questo modo le nostre difese e le nostre resistenze, ne diventa complice, invece di aiutarci, stimolarci a “vederle” e a liberarcene.

Agisce (solo) come una madre amorevole e premurosa: ci “accarezza” , ci conforta, ci rassicura, ci conferma (tutto è ok!), ci dà (finalmente!) l’affetto che ci è sempre mancato e che non riusciamo a trovare fuori (dal setting terapeutico).

Per cui la terapia diventa una lagna infinita e interminabile. Un rimestare continuo, senza nessun costrutto ed elaborazione reali, gli antichi vissuti. Una terapia sostanzialmente inutile, anzi (forse) persino dannosa.

In questo caso i rapporti (anche quello psicoterapeutico) realizzano la loro funzione, il loro “compito”, solo a metà. Sono rapporti in cui prevale (o è presente solo) la dimensione materna, privi o poveri della dimensione paterna.

Sono rapporti, quindi, monchi, bambini, che non riescono a crescere, a realizzare tutto il loro potenziale.

Giovanni Lamagna