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Sul film “La pazza gioia” di Paolo Virzì.

23 maggio 2016

Sul film “La pazza gioia” di Paolo Virzì.

“La pazza gioia” di Virzì è un film apparentemente sul disagio mentale, in realtà (e ancora di più) su quello esistenziale e sociale.

E’ un film, quindi, sul dolore, sulla sofferenza, sullo sfruttamento e sull’indifferenza che caratterizza molte relazioni, ma anche sull’amicizia, sulla tenerezza, sulla gioia, sul divertimento, sulle grandi potenzialità della solidarietà tra gli esseri umani.

E’ la storia di due donne, Beatrice Morandini Valdirana (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella Morelli (interpretata da Micaela Ramazzotti), le cui vite ad un certo punto si incontrano, si attraggono irresistibilmente (nonostante l’iniziale diffidenza della seconda) e si intrecciano poi saldamente, grazie (potremmo dire) da una lato alla condizione di estrema sofferenza che le accomuna e dall’altro alla voglia, non ancora estinta in loro, di divertimento, anzi di gioia e, persino, di felicità.

Le due donne non potrebbero essere più diverse.

La prima è una nobildonna di mezza età, elegante e raffinata.

La seconda una proletaria poco più che trentenne, dall’aspetto trasandato e dai modi rozzi.

La prima è senza figli, la seconda una giovane madre.

La prima è una maniaca, ciarlona, logorroica, esaltata, estroversa, solare, piena di sé, millantatrice, altezzosa, straripante, invadente.

La seconda è una depressa, taciturna, musona, introversa, piena di complessi e paure, aggressiva e respingente, affetta da manie suicide.

L’incontro tra le due avviene in una casa di cura, Villa Biondi, dove si praticano terapie di attenzione e rispetto verso i malati, ma nella quale manca comunque un bene primario e indispensabile per ogni essere umano, malato o no che sia: la libertà.

Il bisogno di libertà (e, per conseguenza di evasione) avvicina le due donne e, dopo le prime schermaglie di attrazione/rifiuto, le rende alleate, anzi complici.

In maniera rocambolesca, riescono a scappare dalla Villa e a darsi, per qualche giorno, alla “pazza gioia”.

Ciascuna delle due, allora, ha modo di entrare in contatto con l’inferno dell’altra. Insieme ritornano in entrambi i rispettivi mondi familiari e sociali, dai quali sono state allontanate con forza, in seguito alla loro caduta nel buco nero della malattia mentale.

Incrociano e attraversano, così, l’una la profonda solitudine dell’altra. E durante questo viaggio (che è interiore, prima che esteriore) intrecciano una relazione, che ha del magico, del fiabesco, del surreale, ma è allo stesso tempo molto reale e quasi catartico.

Da questa vicenda nasce un’amicizia vera, sana, profonda, che (forse) le guarisce, come nessuna terapia (né di tipo più moderno e avanzato, né di tipo più tradizionale e antiquato) era riuscita a fare.

Il sugello è l’abbraccio, tenero e allo stesso tempo disperato, delle due donne, stanche e affrante, distese e addormentate, in un sonno necessario e rigeneratore, sulla panchina del lungomare.

Lo spettatore esce dalla sala con il cuore e i sentimenti in subbuglio, sciolti in lacrime, con la sensazione appagante, appagata, di aver visto un gran bel film.

Grati all’autore del soggetto (Virzì), a quelli della sceneggiatura (lo stesso Virzì e la Archibugi), al regista (Virzì, naturalmente), alle due splendide attrici protagoniste (soprattutto alla Valeria Bruni, che è qui in un ruolo insolito per lei), agli altri attori del cast (tra i quali Marco Messeri e Anna Galliena) e a tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione dell’opera.

Giovanni Lamagna

 

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.

26 dicembre 2015

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.

Ci sono rapporti che sono (prevalentemente) di conforto e rassicurazione e altri che sono (prevalentemente) di sprone e sollecitazione.

I primi possono essere paragonati, in senso figurato, ad un abbraccio o ad una carezza.

I secondi ad una spinta, ad un buffetto sulla guancia o, addirittura, ad un (amabile) calcio nel sedere.

I primi tendono a confermare, a stabilizzare, a consolidare quello che già siamo. A dirci: “Sei già ok come sei!”.

L’amore delle madri è in genere così.

I secondi tendono a stimolarci ai cambiamenti, ci spingono ad affrontare nuove sfide, ad aprirci a nuove prospettive. A dirci: “Coraggio, potresti arrivare oltre! Non accontentarti di rimanere lì dove già sei!”.

L’amore dei padri è in genere così.

Nella vita, ciascuno di noi ha bisogno sia degli uni che degli altri. In certi momenti più degli uni, in altri momenti più degli altri.

E non è un caso (forse) che per crescere sani, equilibrati e sereni (se non proprio felici) abbiamo bisogno sia di una madre che di un padre.

Senza la sicurezza che ci deriva dall’amore materno non saremo mai capaci di affrontare e superare gli ostacoli che la vita prima o poi, inevitabilmente, ci pone davanti.

Senza la testimonianza di un padre audace e coraggioso rimarremo rintanati nella cuccia delle nostre sicurezze e non evolveremo mai per sviluppare il nostro potenziale.

Questa storia delle due diverse tipologie di rapporti, a mio avviso, ha a che fare, è in connessione intima con la natura dei desideri che muovono il nostro agire, che modellano anzi il nostro stesso stile di vita.

Se le nostre preferenze vanno al primo tipo di rapporti, in noi sarà prevalente (su tutti gli altri) il desiderio di sicurezza e di stabilità, di una vita tranquilla, comoda, confortevole, calda, accogliente.

Saremo, per converso, meno o, addirittura, poco interessati alla nostra crescita ed evoluzione personale.

Se le nostre preferenze vanno al secondo tipo di rapporti, forse saremmo più predisposti a un tipo di vita in cui saranno centrali la ricerca, la trasgressione, lo spirito di avventura. Con i tutti gli inevitabili rischi e pericoli annessi e connessi.

Nel primo caso saremo portati ad accontentarci di quello che la vita ci offre quasi naturalmente, senza che da parte nostra siano necessari un grosso impegno e una grande ricerca per ottenerlo.

Diremo, molto probabilmente, a noi stessi ed agli altri, che più di quello che già abbiamo non desideriamo; e che certe cose semplicemente non ci interessano, anzi che non le desideriamo affatto.

Ma c’è da chiedersi (e dovremmo, forse, chiederci): certe cose non ci interessano perché i nostri gusti e le nostre preferenze vanno realmente in altre direzioni o perché queste cose ci mettono in ansia, ci fanno sentire in pericolo, ci destabilizzano, perché ci chiedono di uscire dal guscio nel quale ci sentiamo protetti e difesi?

In questo secondo caso, certo possiamo benissimo continuare a dire che certe cose non ci interessano, anzi che non ci piacciono per niente. Nessun Dio e nessuna legge umana ci obbligheranno mai a sentire e a pensare diversamente.

Ma dobbiamo sapere però che è un po’ come con la storiella della volpe e dell’uva.

La volpe desiderava afferrare l’uva e mangiarla. Ma per quanti salti facesse non riusciva ad arrivare con le zampe al ramo a cui l’uva era appesa. E allora la volpe disse “Fa niente! Tanto l’uva non mi piace!”.

In questo secondo caso probabilmente riusciremo a fare la vita comoda e perfino tranquilla e serena, che è maggiormente nelle nostre corde emotive, ma forse rinunceremo a realizzare il nostro daimon, che in qualche modo esige sempre, invece, la disponibilità ad affrontare i rischi e i pericoli, le incognite e le sorprese, connessi alla ricerca di scenari nuovi e insoliti.

Ora (per tornare alla nostra riflessione iniziale) alcuni rapporti ci consigliano di accontentarci di quello che siamo, altri ci spingono ad andare oltre. E il più delle volte gli uni sono incompatibili con gli altri.

A seconda se privilegiamo gli uni o gli altri abbiamo già fatto una scelta implicita della direzione da dare alla nostra vita.

Questo conferma l’antico e saggio proverbio: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.

Giovanni Lamagna