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Paura, coraggio e temerarietà.

Nell’isola di Creta il re Minosse aveva chiesto a Dedalo di costruire il labirinto per il Minotauro.

Avendolo costruito e, quindi, conoscendone la struttura, a Dedalo e a suo figlio Icaro fu preclusa ogni via di fuga da Creta da parte di Minosse, poiché questi temeva che ne fossero svelati i segreti.

Dedalo e Icaro vennero perciò rinchiusi nel labirinto.

Per scappare, allora, Dedalo costruì delle ali con delle penne e le attaccò ai loro corpi con la cera.

Malgrado gli avvertimenti del padre di non volare troppo alto, Icaro si fece prendere dall’ebbrezza del volo e si avvicinò troppo al sole (nella mitologia Febo).

Il calore fuse la cera, facendolo cadere nel mare, dove in balìa delle onde Icaro trovò la morte.

In questo mito, come in tutti i miti, ci sono varie simbologie e metafore, che possono essere interpretate, anzi è interessante e persino utile interpretare.

La prima metafora mi sembra questa. A volte noi diventiamo prigionieri dei nostri stessi progetti o dei nostri segreti. Così come Dedalo diventa prigioniero del labirinto da lui costruito.

Forse questo capita quando diventiamo prigionieri e succubi della dimensione mentale del nostro Sé.

Che indubbiamente svolge la sua funzione, è utile (anzi indispensabile) all’esistenza. Ma diventa una prigione quando è l’unica dimensione che ci guida, quando ad essa affidiamo totalmente il destino delle nostre scelte.

Allora sentiamo (possiamo sentire) il bisogno di scappare, di liberarci da una tale prigione. E per questo ci costruiamo delle ali.

Che qui rappresentano, a mio avviso, sotto forma simbolica, i nostri desideri non ancora consapevoli, le nostre fantasie, le nostre aspirazioni, le nostre “utopie”.

Queste ali sono indispensabili per evadere da una condizione routinaria, abitudinaria, eccessivamente rassicurante, che senza lo spirito di avventura (rappresentato dal volo) diventerebbe mortifera.

Ma qui sopravviene il rischio opposto a quello rappresentato dalla routine della prigionia: il rischio dell’osare troppo.

Lo spirito di avventura ci mette sempre in una situazione di precarietà, di pericolo, qui rappresentati dalle ali di cera.

L’uomo avventuroso non deve mai trasformarsi in avventuriero. Una cosa è il coraggio, altra cosa la temerarietà.

Icaro, al contrario del padre, uomo coraggioso ma allo stesso tempo prudente, sfida i limiti imposti dalla natura e da coraggioso diventa temerario, imprudente: vola troppo in alto, va dove non sarebbe dovuto andare, conoscendo la sua condizione, si avvicina troppo al sole (simbolo di una meta, un obiettivo non realistici) e quindi si autodistrugge.

Questa fine è simboleggiata dalla metafora della caduta in mare.

Per concludere, io penso, questo mito ci vuole insegnare che il coraggio è una virtù indispensabile, se vogliamo uscire dalla depressione a cui ci condannerebbe una vita senza audacia, senza guizzi, senza immaginazione, senza fantasia, senza ardore.

Ma, allo stesso tempo, ci dice che l’imprudenza, le velleità prive di ogni base razionale, sono altrettanto dannose dell’ignavia, cioè della mancanza di coraggio.

La virtù, come ci insegna il vecchio Stagirita, sta nel giusto mezzo.

Nel caso di cui abbiamo parlato finora sta nel coraggio. Che si situa giusto a metà tra la paura infondata e paralizzante e la temerarietà narcisista e delirante.

Giovanni Lamagna

Dopo aver visto il film “Perfetti sconosciuti”.

16 aprile 2016

Dopo aver visto il film “Perfetti sconosciuti”.

“Perfetti sconosciuti” (nelle sale italiane dall’11 febbraio di quest’anno) è un bellissimo film. Nella tradizione delle migliori commedie all’italiana.

Bellissimo e affiatatissimo cast (Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston, Marco Giallini, Kasia Smutniak, Anna Foglietta, Edoardo Leo). Buonissima recitazione (sciolta, leggera, sempre coi tempi giusti, a tratti ironica e divertente a tratti dolente e, perfino, drammatica). Buona regia di Paolo Genovese. Ma, soprattutto, bel soggetto e bellissima sceneggiatura (dello stesso Genovese, di Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini, Rolando Ravello), che stimola molte riflessioni su di noi, sulla nostra vita e sulle nostre relazioni.

La trama si può raccontare in poche parole: quattro coppie di amici si riuniscono a cena a casa di una di loro. Ad un certo punto della serata la padrona di casa propone un gioco: mettiamo tutti i nostri cellulari sul tavolo e quando arriveranno sms o telefonate leggiamoli o ascoltiamole insieme.

All’inizio la proposta ingenera qualche turbamento e quindi una certa resistenza. Poi tutti/e i convitati accettano di mettersi in gioco. Il film vive tutto su quello che le telefonate e gli sms che via arrivano a ciascuno/a degli otto protagonisti rivelano della loro vita (quella segreta, tenuta nascosta perfino ai rispettivi partner).

Ovviamente (non è difficile immaginarlo) la vita segreta degli otto amici è legata essenzialmente al sesso. Per cui il film diventa una specie di panoramica sulle fantasie e sulle (piccole) trasgressioni sessuali oggi più diffuse.

E’ anche facile immaginare le reazioni di ciascuno/a dei protagonisti della storia: all’inizio soprattutto di sorpresa di fronte alle scoperte che ciascuno/a fa sull’altro/a, poi (per lo più) di grande smarrimento e confusione emotiva, infine di rabbia, invidia, gelosia, in certi casi e momenti perfino di grande, violenta aggressività.

Uscendo dal cinema e mentre tornavo a casa, ho fatto le considerazioni e mi sono posto le domande che provo a raccontare.

E’ senz’altro vero che “ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta” (il trailer del film attribuiva questa frase a Gabriel Maria Marquez).

E, forse, è inevitabile che nelle nostre vite sussista questa tripartizione. E, quindi, una buona dose di ipocrisia e di insincerità.

Ma non sarebbe bene che ognuno di noi lavorasse su di sé, per rendere sempre meno estesa la terza vita e sempre più pubblica e trasparente (come in una casa di vetro) anche la seconda?

Non sarebbe meglio se nessuno di noi avesse segreti per gli altri?

E che ognuno di noi potesse comunicare tranquillamente le proprie fantasie e desideri di evasione/ trasgressione senza ingenerare traumi, paure, angosce di abbandono?

Non sarebbe meglio se nessuno di noi considerasse l’altro come una sua proprietà esclusiva e che considerasse normale che si possa desiderare (e perfino amare) una persona e contemporaneamente amarne anche un’altra?

Non vivremmo tutti/e una vita più semplice, serena e felice, se abbandonassimo le nostre gelosie ed invidie e fossimo disposti a rendere pubblica anche la nostra vita segreta e quella privata?

Non ci eviteremmo angosce e patimenti inutili?

Se la nostra vita segreta (più o meno quella di tutti/e) è fatta anche (perché negarlo?) di simili fantasie ed esperienze, perché considerarle ancora tabù e non sdoganarle come normali modi di essere e di comportarsi?

Non ne guadagneremmo in onestà e sincerità e, quindi, nella qualità delle relazioni?

Non ci liberemmo del fardello inutile di faticose e dispendiose (in termini di energia psichica) ipocrisie?

Forse queste mie riflessioni e domande sono frutto di utopie e di sogni.

Ma non è bello uscire da un cinema sognando? Non è nato il cinema proprio per farci sognare?

E non sono le utopie che fanno progredire l’umanità? Non sono gli uomini che hanno osato immaginare un mondo diverso che hanno poi contribuito a trasformarlo davvero?

Giovanni Lamagna