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Sulla elaborazione di un lutto.

Quando si vive un lutto (cioè il dolore profondo che ci colpisce per la perdita di qualcuno o qualcosa a cui eravamo legati da amore) il primo passo per elaborarlo (e, quindi, per uscirne, per superarlo) non è quello (come molti pensano) di rimuovere, dimenticare, allontanare il pensiero, l’immagine dell’oggetto amato che si è perduto.

Ma piuttosto il contrario: il primo passo dovrebbe essere quello di renderlo ancora più presente nella nostra memoria e nella nostra coscienza, fino a farlo diventare così parte di noi, da non sentire quasi più il bisogno della sua presenza fisica e, quindi, attutire, addolcire il dolore che la perdita di questa presenza causava.

Forse è questo il processo psichico a cui alludeva Gesù, quando, poco prima di esser preso prigioniero e sottoposto al martirio del Golgota (fatti che Gesù sapeva bene sarebbero avvenuti di lì a poco), disse ai suoi discepoli: “Ma io vi assicuro che per voi è meglio se io me ne vado” (Vangelo di Giovanni; 16, 7).

Evidentemente il suo “andare via”, quindi la perdita della sua presenza fisica, il lutto che questo avrebbe causato nei suoi discepoli, erano condizioni imprescindibili perché la sua presenza spirituale si radicasse ancora di più nei loro cuori; (“Perché, se non me ne vado, non verrà da voi lo Spirito che vi difende”; ibidem).

La sua morte, il suo allontanamento fisico, erano pertanto necessari, affinché potesse avvenire nei discepoli quello che di lì a poco Paolo di Tarso dirà essere avvenuto in lui: “Non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me.” (Lettera ai Galati; 2, 20).

A mio avviso, secondo la mia esperienza e per concludere questa breve riflessione, chi non vive il lutto in questo modo, cioè chi lo supera in modo eccessivamente frettoloso o addirittura lo rimuove del tutto, è destinato a rimanere con una ferita sempre aperta, che non si rimarginerà mai.

Nonostante egli voglia convincersi (o si sia magari convinto) di aver completamente dimenticato, rimosso dalla propria coscienza, l’oggetto d’amore perduto e, quindi, superato del tutto e definitivamente il dolore della sua perdita.

Questa speranza/convinzione si rivela ancora più falsa ed illusoria, quando la perdita avviene in seguito a un “tradimento” da parte della persona che egli/ella amava, a cui era profondamente legato/a.

In questo caso l’orgoglio ferito blocca un’adeguata interiorizzazione dell’oggetto perduto, addirittura provoca il suo rifiuto, la sua espulsione, il suo rigetto rancoroso dal proprio spazio interiore ed affettivo.

E ciò impedisce, per conseguenza, una soddisfacente elaborazione della perdita vissuta.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Loro 1” di Paolo Sorrentino.

Ho appena visto la prima parte dell’ultimo film di Paolo Sorrentino “Loro”, liberamente ispirato alla vicenda umana e politica di Silvio Berlusconi.

Non posso dire che mi è piaciuto, non posso dire che è un bel film. Posso dire, però, che è un film che va visto, è un film che mi ha intrigato.

Questa prima parte dura 104 minuti. Lo dico, perché per un buon 90 minuti è rivoltante, provoca un sentimento di rigetto, ripugnanza, ripulsa. Negli ultimi 10/15 minuti, invece, sfiora addirittura la tenerezza e quasi commuove.

Il film è liberamente ispirato alla vita di Silvio Berlusconi: la scritta iniziale che precede l’avvio delle immagini ci tiene a evidenziarlo. Ma la sostanza della vicenda umana e politica di Berlusconi vi è perfettamente narrata nella sostanza.

“Tutto documentato. Tutto arbitrario”: ci dice Sorrentino, citando la frase di Manganelli.

Nel film viene descritto un Berlusconi (Toni Servillo) quasi pensionato. Che ha appena perso le redini del governo, conquistato dal centro sinistra. Ma resta, ovviamente, un uomo di grande potere economico e politico.

Circondato da uomini senza scrupoli, che lo venerano esteriormente, mentre cercano (almeno qualcuno ci prova) di fargli le scarpe ed assumerne l’eredità.

In ogni caso cercano di sfruttarne il potere e la ricchezza, per guadagnarne a loro volta.

In questa prima lunga parte del film fondamentale è il ruolo svolto dal personaggio interpretato da un grande Riccardo Scamarcio, Sergio Morra, uomo spregiudicato, che facendo leva sulle debolezze da vizioso erotomane del leader di Forza Italia si mette in testa di avvicinarlo per proporgli le visite di ragazze rampanti disposte a tutto pur di entrare nelle grazie del Silvio nazionale.

Questa prima parte del film è, dunque, molto giocata sull’intreccio sesso/potere. E mostra molto bene come il sesso possa essere utilizzato quale arma di seduzione e quindi di potere. E come il potere sia uno strumento a sua volta di seduzione, in grado di procurare sesso facile, anche se a prezzi (in denaro e favori) elevatissimi.

E’ la parte del film che, come dicevo prima, provoca disgusto e rigetto: sia di fronte al sistema di corruzione politica dilagante, sia di fronte al consumo di sesso orgiastico a fini di semplice utilizzo del potere, senza alcuna forma vera e disinteressata di relazione benché minima.

Per questo gli ultimi dieci minuti del film sfiorano la tenerezza. Perché vi si mostra un Berlusconi lontano dalle stanze del potere romano, in buen retiro in Sardegna, con la moglie e i nipoti, ai quali sembra sinceramente legato.

Per carità, è sempre il Berlusconi becero, incapace di condividere gli interessi culturali della moglie (Elena Sofia Ricci), accanita lettrice (di Saramago).

E’ il Berlusconi che ama le canzoni napoletane (non certo le migliori) cantate dal suo chansonier preferito Mariano Apicella (Giovanni Esposito).

E’ il Berlusconi che parlando con il nipote adolescente si manifesta in tutto il suo cinismo di uomo potente e spregiudicato. “La verità è frutto del tono e della convinzione con cui la affermiamo”: in sintesi è questo l’insegnamento che cerca di trasmettere come nonno al ragazzo.

E però è comunque un Berlusconi che, approfittando del periodo dorato delle vacanze e del bellissimo contesto naturale che lo circonda (la splendida villa in Sardegna), cerca di recuperare il rapporto in crisi con la moglie Veronica.

E sembra esserci quasi riuscito. C’è un momento in cui i due si allontanano dall’enorme yacht su cui sono ospiti e fanno una passeggiata da soli con una moto d’acqua. Questa ad un certo punto si blocca in mezzo al mare: i due restano abbracciati e ripensano ai momenti iniziali del loro primo incontro.

C’è una canzone che poco dopo fa da sottofondo musicale alla scena finale di Silvio e Veronica che si raccontano e sembrano aver recuperato un po’ dell’antica intimità perduta: Fabio Concato che canta “Una domenica bestiale”, la canzone che avevano ascoltato la prima volta che avevano ballato insieme e si erano dati un bacio.

In lontananza si vede Apicella che li guarda deluso e un po’ mortificato.

La scena sembra un po’ la metafora del rapporto ritrovato. Ma qui il film si interrompe.

Il seguito alla seconda parte, che uscirà tra pochi giorni.

In conclusione.

Che ha voluto dire Sorrentino con questo film? Da quale suo bisogno interiore esso è nato?

A me sembra che il film nasca dalla curiosità di indagare innanzitutto un personaggio (“Lui”, come viene chiamato dai suoi “devoti”), che, al di là del giudizio (umano e politico) che se ne possa avere (e quello del regista – si intuisce – non è affatto positivo e benevolo), ha indubbiamente avuto un ruolo importantissimo, anzi fondamentale nella storia economica, sociale, culturale e politica italiana (soprattutto) degli ultimi 25 anni. Un uomo, quindi, dotato di un indubbio (anche se ovviamente del tutto particolare) carisma.

Il film si propone poi di indagare (anzi all’inizio si propone di fare soprattutto questo) una parte della società italiana, profondamente amorale (la figura del faccendiere tarantino Sergio Morra e quella del ministro-poeta, interpretata mirabilmente da Fabrizio Bentivoglio, ne sono la metafora perfetta), disposta a tutto pur di conquistare potere e sesso (non si capisce bene se dando la precedenza al sesso o al potere): il sesso attraverso il potere e il potere attraverso il sesso.

Non a caso il film si intitola “Loro”. Loro sono tutti coloro che circondano Silvio Berlusconi, sono la sua corte, che non si capisce bene fino a che punto si rispecchiano in lui, si riconoscono in lui, vorrebbero essere come lui, e fino a che punto lo utilizzano, lo sfruttano e sono capaci e disposti anche a ingannarlo e tramare contro di lui, pur di raggiungere la sua stessa ricchezza, il suo stesso potere, la sua capacità di godimento (sessuale) sfrenato e senza limiti.

Il film nasce, dunque, a mio avviso dal bisogno-desiderio del regista (e dell’altro sceneggiatore Umberto Contarello) di raccontare la vicenda umana e politica di un personaggio, che è stata, però, (e, per certi versi, è ancora) l’autobiografia di un’intera nazione o, perlomeno, di una parte consistente di essa.

Anzi forse l’intento principale del regista è soprattutto quello di raccontare l’Italia di fine secolo XX e inizi secolo XXI. Come a dire: Berlusconi è la perfetta metafora dell’Italia di questo periodo storico. Non a caso (ripeto) il film si intitola “Loro” e non “Lui”, come ci si poteva aspettare, visto che il film è (apparentemente) incentrato sulla figura del Berlusca.

E’ riuscito Sorrentino a realizzare il suo intento? A giudicare questa prima parte del suo film (che non potrà essere valutato compiutamente senza aver visto anche la seconda parte, in uscita il 10 maggio prossimo), a mio avviso, c’è riuscito abbastanza. L’Italia che egli voleva descrivere è stata da lui guardata con una specie di lente di ingrandimento e con occhio spietato. E, a mio giudizio, ne esce a pezzi. Addirittura (forse) peggio del signore-mito nel quale essa si è rispecchiata in questi ultimi 25 anni. Particolare questo sul quale si potrà discutere e che si potrà anche non condividere: è, infatti, la parte del film più opinabile.

In ogni caso non mi pare ci siano state indulgenze da parte di Sorrentino né nei confronti dell’una né nei confronti dell’altro. Il giudizio implicito che se ne ricava è spietato e severo: basta guardare dentro di sé, ai sentimenti di rigetto, ripulsa e ripugnanza che il film provoca. Ma è, appunto, un giudizio implicito, espresso con eleganza e misura dall’autore, senza condanne moralistiche. Lo spettatore se lo forma, a sua volta, da solo, senza che nessuno (apparentemente) lo abbia guidato o indotto: l’autore si è semplicemente limitato a descrivere i fatti, la realtà (per quanto, in parte, ma solo molto in parte, elaborata e trasfigurata).

E’ riuscito il film dal punto di vista estetico? A mio avviso, sì. Sorrentino indubbiamente lo conduce con la solita grande padronanza tecnica. I contenuti non sono gradevoli, quindi il film non può piacere perché racconta una storia che piace. Ma sono raccontati con grande realismo e quindi in maniera che a me è risultata efficace. Alla fine il risultato comunicativo che Sorrentino voleva raggiungere è stato raggiunto. E in un prodotto artistico questo è ciò che conta.

Giovanni Lamagna