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Non c’è alcun futuro per una visione religiosa dell’esistenza?

L’umanità (o, meglio, questa parte dell’umanità di cui faccio parte, l’umanità dell’Occidente “avanzato” e “progredito”, l’umanità del Primo Mondo, a evidenziare e sottolineare l’esistenza di una gerarchia tra diversi mondi, gerarchia stabilita ovviamente da chi si sente orgogliosamente, anzi presuntuosamente, diciamo pure narcisisticamente, parte del Primo Mondo) ha stabilito ad un certo punto (a partire decisamente dalla fine del 1800, ma il percorso che ha portato a questo esito era iniziato già tre o quattro secoli prima) che, tenuto conto dei progressi delle scienze e delle filosofie, che avevano evidenziato con un sufficiente grado di attendibilità l’inesistenza di Dio o, quantomeno, l’impossibilità di una dimostrazione razionale della sua esistenza, non solo le religioni storiche tradizionali non avevano più senso, che erano poco più che delle credenze mitologiche o, addirittura, superstiziose, ma che non aveva neanche più senso un qualsiasi atteggiamento religioso nei confronti del mondo e della vita.

Il mio pensiero, molto deciso e forte, è che un tale convincimento (almeno quello più radicale: il senso e lo spirito religioso non hanno oramai più alcuna prospettiva di sopravvivenza e nessun diritto di cittadinanza nelle nostre società “progredite”) non ha nessun serio fondamento, né teorico né, tantomeno, pratico.

A meno che l’umanità, perlomeno questa umanità, di questa epoca e di questa parte del mondo, questa umanità di cui anche io mi sento parte e che allo stesso tempo sento aliena, non voglia infilarsi non tanto in un vicolo cieco (cosa che ha già fatto, come dicevo, da tempo, cioè oramai da almeno un secolo e mezzo), ma in una via senza più ritorno, che la porterebbe all’annichilimento (qui il riferimento al “nichilismo” di tanta parte della filosofia contemporanea è consapevole e voluto), ovverossia all’autodistruzione insieme teorica e morale e, quindi, quasi sicuramente, come sua ovvia e tragica conseguenza, anche fisica e materiale.

La mia idea convinta è:

 1) che le scienze e le filosofie hanno indubbiamente dimostrato che non è possibile argomentare (al contrario di quanto riteneva la maggior parte dei filosofi nell’antichità e fino al Medioevo) razionalmente l’esistenza di Dio;

 2) che anzi non sia più possibile credere seriamente, sulla base cioè di convinzioni filosofiche aggiornate e non di vecchie filosofie oramai superate, nell’esistenza di un Dio personale, di un mondo ultraterreno e di una vita futura dopo la morte, come, invece, le religioni tradizionali vorrebbero ancora farci credere;

 3) ma che questo non comporti affatto il tramonto definitivo dell’idea stessa di “religione”; o, meglio, che questo dato di realtà non debba comportare affatto la rinuncia a, la dismissione di quell’atteggiamento spirituale di fronte al mondo e alla vita che per millenni abbiamo definito come “religioso”.

Questa mia idea forte e convinta si basa:

 1) sulla constatazione inoppugnabile che tutte le culture, almeno fino a due secoli fa, hanno elaborato e professato un credo religioso e praticato riti, cerimoniali e regole morali a quel credo collegati;

 2) sulla deduzione, semplice ed evidente, che da questa constatazione deriva: evidentemente le religioni non nascono a caso, non sorgono per un capriccio della storia, ma perché corrispondono a bisogni profondi dell’umanità.

Certo, al bisogno profondo di trovare conforto contro le paure e le angosce dell’esistenza, in primis contro le forze per lungo tempo misteriose della natura, di cercare quindi protezione in figure mitiche paterne o materne e, soprattutto, di esorcizzare l’idea angosciosa della morte con la speranza di una vita post mortem.

Ma anche al bisogno altrettanto profondo di trovare un senso alla propria esistenza individuale e di regolare la vita sociale, con delle norme il più possibile condivise, rese convincenti, persuasive, anche attraverso il ricorso a simbologie, mitologie, rituali e cerimoniali dal forte impatto emotivo-affettivo.

Ora è mia idea forte, salda, che il progresso scientifico e l’evoluzione del pensiero filosofico abbiano dato indubbiamente grosse picconate negli ultimi cinque secoli alle risposte che le religioni tradizionali (soprattutto quelle teiste; non tutte le religioni, come sappiamo sono teiste; ad esempio, il buddhismo non lo è) avevano fornito al primo bisogno di cui sopra.

E’ mia idea forte che la modernità abbia, in altre parole, demolito i miti su cui la maggior parte delle religioni storiche, tradizionali, si fondavano; e che quindi sia impossibile oggi continuare a dar credito a certe credenze religiose, a meno di non voler rimanere fermi (“fissati” direbbe Freud) ad uno stadio evolutivo primitivo, mi verrebbe di dire infantile, della storia dell’umanità.

Ma è mia idea altrettanto forte che il progresso scientifico e l’evoluzione del pensiero filosofico non abbiano affatto dato delle risposte migliori di quelle date, fino a quattro-cinque secoli fa, dalle religioni, al secondo bisogno da cui quelle religioni nascevano: il bisogno di senso, di significato, di una motivazione al vivere.

Con la conseguenza che, mentre il progresso scientifico ha almeno in parte rassicurato l’essere umano rispetto ad alcune sue paure ancestrali e fornito “farmaci” adeguati al riguardo, il pensiero filosofico (almeno quello prevalente ed egemone) lo ha deprivato dei fondamenti metafisici, su cui si basavano le sue antiche sicurezze, senza però offrirgliene altri; con esiti che sono stati fatalmente (e non potevano non esserlo) nichilisti.

Così che la tecnologia (figlia, anche se parecchio degenere, delle scienze) è diventata – come ci hanno fatto vedere benissimo due pensatori, tra molti altri, quali Martin Heidegger e Gunther Anders – la nuova religione del tempo contemporaneo, sottraendosi, sfuggendo – in maniera che, a mio avviso, ci porterà prima o poi al disastro – al controllo e alla guida del pensiero filosofico.

Un po’ come (sia detto per inciso) l’economia o, per meglio dire, i poteri economici forti sfuggono oramai al controllo e alla guida della politica; una politica che, senza una visione del mondo e quindi senza un pensiero filosofico alle spalle, diventa cieca e muta e, perciò, impotente nei confronti dell’economia.

Qual è allora la conclusione, dopo questa lunga premessa, della riflessione che ho fin qui svolto?

Lo dico con molta nettezza e chiarezza: bisogna recuperare sul piano filosofico le ragioni e i fondamenti (certo, quelli possibili, razionali, del tutto immanenti e non più metafisici) di una visione religiosa del mondo.

Senza dubbio, tenendo conto di alcune acquisizioni (anche per me irreversibili) del pensiero scientifico e filosofico moderno!

Ma senza buttare (come ha fatto invece una buona parte della filosofia moderna e contemporanea, senza grandi eccezioni, soprattutto a partire da Feuerbach e Marx per arrivare a Nietzsche e infine a Cioran) il bambino con tutta l’acqua sporca.

Occorre che la filosofia ridia in altre parole speranza e fiducia all’umanità; altrimenti ci sarà presto o tardi (più presto che tardi) la fine del pensiero filosofico e con esso la fine della stessa umanità.

© Giovanni Lamagna

Che cosa intendiamo con la parola “essere”?

In “Introduzione alla metafisica” (1935; ed. 1953) Martin Heidegger si chiede:

Che cosa intendiamo con la parola essere, l’essere? Tentare di rispondere significa trovarci subito in imbarazzo. E’ un voler cogliere l’inafferrabile. Con tutto ciò, noi siamo continuamente attratti dall’ente, inseriti in esso, portati a considerare noi stessi come degli enti. L’essere, per ora, non è per noi che un semplice vocabolo, un termine frusto. Se non altro, bisogna che cerchiamo almeno d’impadronirci di quest’ultimo resto rimasto in nostro possesso. Chiediamo pertanto: che ne è della parola essere?

A queste domande io ho una sola risposta: il piano degli enti (ontico) non può essere indubbiamente confuso con quello dell’essere (ontologico); e su questo sarebbe stato certamente d’accordo anche Heidegger, che ha fatto più volte questa distinzione, anzi è partito proprio da essa per avviare la sua ricerca attorno all’Essere.

Il motivo per cui non li confondo io è però diverso da quello per il quale – a me pare – li distingue Heidegger.

Per me non vanno confusi perché gli enti si situano nel mondo reale, della materialità, di ciò che è percepibile con i sensi: il piano dei fenomeni; l’essere, invece, si situa sul piano delle categorie astratte del pensiero, è una categoria puramente logica, gnoseologica: è il “quid” che accomuna astrattamente gli enti.

Da questo punto di vista, è vero – ed in questo concordo con Heidegger – che l’essere è “l’inafferrabile”, si potrebbe anche dire l’innominabile; è ciò che Kant aveva definito col termine “noumeno”, cioè un’essenza pensabile ma non percepibile coi sensi.

Ed è quindi naturale, direi ovvio, che noi siamo attratti innanzitutto dagli enti, coi quali la nostra vita concreta, la nostra esistenza, il nostro “esserci nel mondo” – a voler usare un’espressione inventata proprio da Heidegger – fa i conti tutti i giorni, anzi momento per momento.

Ed è vero pure che l’essere si riduce, dunque, ad essere un vocabolo: un vocabolo che esprime una realtà astratta, concettuale, non materiale, e, quindi, inafferrabile, di cui si può dire ben poco, anzi niente.

Per cui reputo del tutto velleitario il tentativo di Heidegger di volersi impadronire di questo vocabolo e di volersi cimentare con la domanda “cosa ne è di esso”?

Ritengo molto più realistica (e quindi saggia) la celebre affermazione di Wittgstein, “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, l’ultima delle sette proposizioni principali del suo “Tractatus logico-philosophicus”.

E’ questo nichilismo, come sembra dedurne Heidegger, quando scrive, sempre in “Introduzione alla metafisica”: “Nella dimenticanza dell’essere, promuovere solo l’ente, questo è nichilismo”?

Io non sono d’accordo con una tale conclusione. L’esito nichilista non è per me affatto scontato, né sul piano della filosofia teoretica, né su quello della filosofia morale.

Non è scontato sul piano della filosofia teoretica, perché qui non si tratta di negare e manco di dimenticare l’essere; si tratta semplicemente, come aveva già fatto Kant con mirabile chiarezza, di riconoscergli il ruolo che gli spetta, né di più né di meno: l’essere è solo un concetto, quindi è pensabile, se ne può addirittura ipotizzare l’esistenza come realtà assoluta, la cosiddetta “realtà in sé”, ma non può essere da noi investigato e conosciuto come si investigano e conoscono le altre realtà esistenti, dal momento che il nostro pensiero non può prescindere (e su questo Kant per me ha detto parole definitive) dalle categorie di “spazio” e “tempo”, che non possono essere applicate ad una “realtà” che si ipotizza “ essere” fuori del tempo e dello spazio.

Non è scontato sul piano della filosofia morale, perché la negazione (almeno sul piano della dimostrabilità teoretica) dell’orizzonte metafisico non comporta agli occhi dell’uomo né l’automatica “morte di Dio”, come aveva sostenuto Nietzsche, (chi crede in Dio non lo fa come esito di un processo conoscitivo, ma in base ad un atto di fede, quindi di “grazia ricevuta”; almeno lui così la vive e la racconta), né comporta, tantomeno, l’assoluto relativismo morale (“Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”), come Dostoevskij fa dire ad Ivan Karamazov; perché le regole morali che l’uomo si dà sono sempre il frutto di una sua scelta libera, autonoma e non di una imposizione calata dall’alto; anche quando le facesse derivare dalla volontà di un Dio.

© Giovanni Lamagna