Archivi Blog
Vita e consapevolezza della vita.
La Vita vive e va avanti di per sé, a prescindere dalla consapevolezza che ne abbiamo.
Tanto è vero che già esisteva prima che nascessimo ed esisterà anche dopo che saremo morti.
Addirittura anche dopo che il mondo (il nostro piccolo mondo, il pianeta Terra) si sarà estinto.
Come siamo piccoli ed infinitesimali di fronte al mistero infinito della Vita!
E, però, la Vita comincia ad acquisire un senso (che è poi l’unica cosa che conta davvero per noi) solo nel momento in cui cominciamo a dare un nome alle cose, ad utilizzare il linguaggio, ad avere quindi consapevolezza del nostro essere vivi.
Sta tutta qui la differenza (e che differenza!) tra noi e una pietra, tra noi e una pianta, tra noi ed un animale.
Gli animali vivono e muoiono senza aver avuto nessuna consapevolezza di aver vissuto.
Non so – a dire il vero – se questo sia un bene o un male; ma così è, senza ombra di dubbio.
© Giovanni Lamagna
Cosa significa “meditare”?
Meditare per me è diverso dal semplice pensare; è qualcosa in più.
Pensare è qualcosa che obbedisce a delle regole precise, in qualche modo meccaniche, automatiche.
Quando faccio l’operazione 1 + 1 e arrivo al risultato che fa 2 sto pensando; ho fatto in questo caso un’operazione puramente mentale.
Quando, invece, arrivo al risultato che 1 + 1 può fare anche tre (come ci “insegna” la metafora del Dio Uno e Trino) sto meditando; ho fatto cioè un’operazione che va al di là delle pure regole mentali, le ri-vede, le trasforma, a volte (come in questo caso) addirittura le sconvolge.
In nome di una logica non solo mentale, puramente intellettuale, ma diversa, io dico addirittura superiore, perché fondata su una intuizione, che coglie altri aspetti del reale, che la pura intelligenza matematica o aritmetica non sarà mai in grado di cogliere.
E che, però, a pensarci bene, sta dietro il mistero della vita stessa.
Cosa accade, infatti, quando un uomo e una donna (ma anche due animali di sesso diverso) si congiungono e concepiscono una nuova creatura, se non il fatto (logicamente paradossale) che uno più uno fa tre e non due?
Vado avanti nella mia riflessione; quando ascolto una persona o leggo un testo e sto attento a capire le parole che ascolto o che leggo, sto pensando, sto facendo anche qui un’operazione soprattutto mentale, anche se non solo mentale; perché qui c’entra anche l’empatia, quindi entrano in gioco anche le emozioni e i sentimenti.
Ma, se ritorno una seconda volta o, addirittura, più volte sulle parole che ho appena ascoltate o lette, in questo caso non sto solamente, semplicemente pensando, sto, infatti, meditando.
Sto facendo, cioè, un’operazione che è qualcosa in più del semplice capire o del rispettare alcune procedure logiche, intellettuali, di puro ed esclusivo pensiero.
Capire, infatti, ha qualcosa a che fare col ricevere, col carpire, col prendere, con l’impossessarsi di un concetto.
Meditare ha a che fare, invece, piuttosto col dare, col produrre, con il generare, con il mettere a frutto ciò che ho capito, ciò che ho carpito, com-preso, ciò di cui sono entrato in possesso quando ho semplicemente pensato o solo visto, guardato qualcosa.
Capire mi fa pensare alla pianta che, per vivere, ha bisogno di ricevere periodicamente acqua e concime.
Meditare alla pianta che, dopo aver assorbito acqua e concime, produce prima fiori e poi frutti.
Capire ha a che fare prevalentemente con l’ascoltare e il leggere.
Meditare piuttosto con il parlare (anche solo con sé stessi) e con lo scrivere (fosse anche solo una pagina di diario).
So bene, lo leggo dai vocabolari, che la parola “meditare” deriva dal latino “meditari”, che, a sua volta, deriva dalla parola “mederi”, che vuol dire “curare”, raccostato nel significato al greco “μελετάω”, che equivale a “curarsi di” o “curare qualche cosa”, dopo aver (appunto) riflettuto, pensato; equivale, potremmo dire anche, a “medicare” (vedi vocabolario Treccani).
Ma a me piace pensare che la parola “meditare” abbia a che fare anche con questa etimologia: “medium + ire”; ovverossia con l’andare, l’entrare in mezzo, cioè dentro, nel cuore delle cose, oltre la loro apparenza superficiale, semplicemente fenomenica, fisica, materiale; per coglierne l’anima, il senso profondo.
Per riceverne in primis alimento spirituale e poi, in seconda battuta, comunicarlo, socializzarlo, donarlo a tutti coloro coi quali abbiamo a che fare, coi quali entriamo in contatto, in relazione.
Questo secondo movimento, infatti, viene naturale, spontaneo, dopo aver meditato.
E qui mi sovviene la famosa frase di Tommaso d’Aquino contenuta nella sua “Summa Theologiae”: “contemplata aliis tradere”; divenuta poi motto dell’Ordine Domenicano.
Che potrebbe essere – io penso – condiviso dalla maggior parte degli uomini di pensiero, anche da quelli del tutto alieni da qualsiasi fede religiosa.
© Giovanni Lamagna
Pianta e radici, teoria e prassi.
Non ci sono buone azioni che non partano, non siano motivate da buone idee.
Tra le idee e le azioni passa lo stesso rapporto che c’è tra una pianta e le sue radici: le azioni sono la pianta, le idee le sue radici.
Le radici senza la pianta sono invisibili e, quindi, inutili.
Una pianta senza radici non esiste o è destinata a durare poco.
Teoria e prassi sono entrambe necessarie.
Una teoria senza azioni conseguenti è inutile.
Una prassi senza una buona e solida teoria alle spalle non produrrà mai buoni frutti.
Mentre il buon albero si riconosce dai frutti.
© Giovanni Lamagna
La parola e il silenzio.
L’uso della parola è fondamentale nel farsi dell’uomo. E’ il suo specifico. E’ ciò che ne decide la sua natura precipua.
Eppure la parola ha senso se nasce dal silenzio. Se, anzi, si alimenta del silenzio e con il silenzio.
Non, ovviamente, il silenzio che è incapacità di pronunciare verbo. Che è, a sua volta, assenza o paralisi del pensiero.
Ma il silenzio che è capacità di ascolto. Il quale, per farsi efficace, ha bisogno di rinunciare alla parola, per immedesimarsi nella parola dell’altro/a.
Il silenzio che è rinuncia voluta, consapevole (e momentanea) alla parola esteriore, alla “parola parlata”, per farsi parola interiore, dialogo con il Sé, anzi con l’Altro da sé, che è l’unico modo per attivare il pensiero, di rendere la ragione attiva, ragionante, nello sforzo (forse vano, ma comunque irrinunciabile) di essere obiettiva, cioè il più possibile aderente all’oggetto del suo pensare.
La condizione per non accontentarsi di un pensiero come semplice moto spontaneo, per forza di cose “luogo comune”, stereotipo, banale.
Il silenzio che è ricerca del dato il più possibile oggettivo, vicino alla “verità”.
“Verità” sempre sfuggente, sempre relativa, mai assoluta, ma pur sempre “la mia verità”.
L’unica verità possibile, piccola, limitata, parziale, eppure la verità per la quale vale la pena vivere; la sola verità che ci consente di entrare in qualche modo in contatto con gli altri, di uscire dalla nostra (radicale) solitudine.
Il silenzio, quindi, al servizio delle parole, della parola.
Così come la radice è al servizio della pianta, anzi è essa stessa pianta. Parola nascosta, invisibile, ma essenziale alla “parola parlata”, se questa non vuole ridursi a puro e vuoto “flatus vocis”.
La vita si fa vera, cioè spirituale, solo nel silenzio. Come sanno bene i contemplativi.
Giovanni Lamagna
Delusione d’amore
13 novembre 2016
Delusione d’amore
Avevo colto nei tuoi ardori sessuali
il segno di una vitalità repressa
ma comunque esistente
fuoco sotto la cenere.
E ad essa mi ero avvinto
come edera alla pianta,
di essa ero diventato
prigioniero.
Felice prigioniero!
Oggi quel fuoco
si è spento,
forse definitivamente.
L’edera è appassita
staccata dall’albero.
E il mio cuore è
depresso
sconfortato
deluso.
Giovanni Lamagna