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Natura, bisogno, piacere, ragione e desiderio.

“La natura, maternamente, ha stabilito che le azioni che ci ha imposto per il nostro bisogno fossero anche piacevoli per noi, e ci invita ad esse non solo con la ragione, ma anche col desiderio: è un’ingiustizia alterare le sue regole.” (Montaigne; “Saggi”; Libro III; cap. XIII; pag. 1039-1040).

Io aggiungo: non sempre è così; anche se non poche volte – per fortuna – è così.

Ci sono (non pochi) momenti in cui ragione e sentimento (il desiderio ha a che fare col sentimento più che con la ragione) vanno in rotta di collisione.

Per cui direi che la nostra crescita spirituale e, quindi, umana, sta tutta in questo tentativo/ricerca di mettere il più possibile in accordo e in armonia la nostra parte razionale con quella desiderante.

Di mettere d’accordo, in altre parole, il “principio del piacere” con il “principio della realtà”: avrebbe detto Freud.

O il desiderio con la Legge: avrebbe detto Lacan.

© Giovanni Lamagna

Morte graduale… morte desiderata…

La morte, come dice Montaigne, tranne rari casi, non ci coglie mai d’improvviso, cioè nel pieno delle nostre forze.

In genere è l’atto finale, la conclusione di un più o meno graduale lento declino, di un progressivo logoramento del nostro fisico.

Per cui non uccide mai l’uomo intero che eravamo da giovani e, perfino, nella piena maturità (ovverossia tra i 40 e i 50 anni), ma solo “una metà o un quarto” dell’uomo che fummo da giovani o anche da anziani, prima di giungere cioè (semmai vi giungeremo) alla tarda età.

La morte – in certi casi – potrà giungere persino come consolazione, cioè come conclusione desiderata di una vita capace oramai di offrire solo pene e nessuna o ben poche gioie.

© Giovanni Lamagna

Esperienza di vita e lettura dei libri.

In altre parole Montaigne ci dice (“Saggi”; Libro III; cap. XIII; Bompiani 2017; pag. 1005-1006) che si può imparare molto di più dalla propria esperienza, osservando sé stessi, che dalle pagine di un libro.

Io dico, invece, che entrambe le letture (quella dell’esperienza e quella dei libri) sono importanti, anzi necessarie, perché l’una rafforza l’altra e viceversa.

Dal confronto dell’una con l’altra (e viceversa) si impara tantissimo, molto di più che dalla sola esperienza della vita senza libri o dai libri senza l’esperienza della vita.

© Giovanni Lamagna

Legalità e giustizia.

Montaigne già alla fine del 1500 traccia in modo lapidario e direi definitivo un confine netto tra il concetto di legalità e quello di giustizia.

Che non collimano affatto, come il pensiero comune tende banalmente a ritenere, ma spesso confliggono.

Non sempre ciò che è legge è anche giusto, come non sempre ciò che è giusto è tradotto anche in legge.

Montaigne così scrive nel libro III, cap. XIII, a pag. 1004 dei suoi “Saggi”:

“Ora le leggi mantengono il loro credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. E’ il fondamento misterioso della loro autorità. Non ne hanno altri. E torna loro a vantaggio. Sono fatte spesso da gente sciocca. Più spesso da persone che, per odio dell’eguaglianza, mancano di equità. Ma sempre da uomini: autori vani e incerti. Non c’è nulla di così gravemente e largamente né così frequentemente fallace come le leggi.”

© Giovanni Lamagna

Montaigne, relativismo e dogmatismo.

Montaigne scrive: “Come nessun fatto e nessuna forma assomiglia del tutto a un’altra, così nessuna differisce del tutto dall’altra… Se le nostre facce non fossero simili, non si potrebbe distinguere l’uomo dalla bestia: se non fossero dissimili, non si potrebbe distinguere l’uomo dall’uomo”. (“Saggi”; Libro III; Cap. XIII; pag. 1001)

Non si potrebbe, a mio avviso, dire meglio come l’affermazione della relatività di ogni verità non significhi affatto l’atteggiamento scettico di fronte ad ogni verità, ovverossia la rinuncia a trovare la verità.

E, allo stesso tempo, come la scoperta e l’affermazione di una verità non possa sfociare nel dogmatismo, che pretende di far assurgere questa verità parziale a Verità assoluta.

© Giovanni Lamagna

Montaigne e il relativismo delle conoscenze.

Montaigne scrive: “Mai due uomini giudicano ugualmente una stessa cosa, ed è impossibile vedere due opinioni esattamente simili. Non solo in uomini diversi, ma nello stesso uomo in diversi momenti”. (“Saggi”; Libro III; cap. XIII; pag. 999).

Con queste poche e semplici parole Montaigne, attorno alla fine del 1500, fonda il relativismo radicale di ogni conoscenza, su cui si basano la filosofia e la scienza moderne.

Relativismo radicale che non è affatto sinonimo dello scetticismo e, meno che mai, del nichilismo, verso cui una certa filosofia contemporanea ad un certo punto è scivolata.

© Giovanni Lamagna

Sull’educazione del fanciullo.

Per Montaigne il fanciullo dovrà essere educato innanzitutto a quei “ragionamenti… che regolano i suoi costumi e il suo buon senso. Che gli insegneranno a conoscersi e a saper ben morire e ben vivere.” (“Saggi”, Libro I, cap. XXVI, pag.147).

Io condivido sostanzialmente questa affermazione, ma la modificherei un poco, mettendo il “ben vivere” prima del “ben morire”; per me, infatti, non si può imparare a ben morire, se non si è prima imparato a ben vivere.

E a tal fine – concordo pienamente con Montaigne – ci sono scienze e arti utili ed altre che lo sono molto meno o per nulla, cose che vale la pena di apprendere e praticare con metodo e impegno ed altre che è meglio ignorare e tralasciare del tutto.

© Giovanni Lamagna

Scopi e compiti della formazione intellettuale

Lo scopo della formazione intellettuale è per Montaigne (“Saggi”, Libro I, cap. XXVI, pag.147): “Et quo quemque modo fugiatque feratque laborem” (“E in che modo evitare e sopportare le pene” (da Virgilio, “Eneide”, III, 459).

Io aggiungerei – con Epicuro – che compito della formazione intellettuale è anche quello di apprendere a godere il meglio delle gioie e dei piaceri che la vita pure ci dà, assieme alle pene che indubbiamente non ci fa mancare.

© Giovanni Lamagna

Tutto è (o può essere) occasione di apprendimento.

Sono pienamente d’accordo con Montaigne: tutto è (o, meglio, può essere, se ne sappiamo approfittare) occasione di apprendimento per noi.

In modo particolare lo sono (o possono esserlo) le relazioni con gli altri uomini.

Possiamo imparare persino dalla stoltezza e dai comportamenti sbagliati degli altri.

Che ci possono essere dunque e comunque maestri, anche se in negativo.

© Giovanni Lamagna

L’artista e l’opera d’arte

Ha proprio ragione Montaigne quando afferma:

I voli poetici, che trascinano l’autore e lo rapiscono fuori di se stesso, perché non attribuirli alla sua buona sorte? Egli medesimo, infatti, conferma che superano le sue possibilità e le sue forze e riconosce che gli vengono altronde che da se stesso, e che non li ha in alcun modo in suo potere…” (“Saggi”; Libro I; cap.XXIV; pag. 117).

Sono convinto anch’io che l’artista, più che fare la sua opera, è fatto dalla sua opera.

C’è in lui qualcosa che lo trascina a compierla.

Egli è solo il mezzo, lo strumento di una potenza creatrice che lo trascende, che si serve di lui, per realizzare la cosiddetta “opera d’arte”.

© Giovanni Lamagna