Archivi Blog
Perché è così difficile comprendersi, comunicare?
Nessuno di noi parla esattamente la stessa lingua degli altri.
Anche quando siamo accomunati dalla stessa patria, città e persino paese o quartiere.
Se, infatti, la lingua è espressione di un modo di guardare la realtà, il mondo, siccome nessuno guarda la realtà, il mondo, esattamente allo stesso modo dell’altro/degli altri, nessuno allora parlerà esattamente la stessa lingua dell’altro/degli altri.
Per fare un esempio, quello più macroscopico e persino banale: di certo la persona ignorante, nel senso di poco o per nulla istruita, non parla la stessa lingua della persona colta.
E, infatti, spesso la persona ignorante non capisce quello che l’uomo colto dice, come se questi parlasse una lingua straniera, diversa dalla sua.
Per fare un altro esempio, un po’ più sofisticato e meno vistoso: chi è abituato a frequentare se stesso vede e sente cose che chi non è abituato a farlo manco si rende conto che esistono.
Di conseguenza i due parleranno lingue completamente diverse, anche se useranno un lessico, una ortografia, una grammatica e una sintassi simili.
Da qui deriva un dato che è sotto gli occhi di tutti noi: la babele delle lingue, la grande difficoltà a comunicare, a intendersi, a comprendersi gli uni cogli altri.
© Giovanni Lamagna
Il “relativismo linguistico”.
Noi pensiamo utilizzando una lingua.
Sempre; anche quando pensiamo in silenzio, senza parlare con qualcuno.
Il pensiero, dunque, non è separabile dalla lingua in cui esso è espresso, formulato.
La lingua in cui il pensiero si manifesta è il modo stesso di generarsi e di vivere di un pensiero.
Perciò a lingue diverse corrispondono modi di pensare diversi.
E’ di questo che ci ha resi edotti la linguistica moderna.
Di conseguenza ogni lingua rappresenta una determinata (e relativa, parziale) visione del mondo.
Che include determinati aspetti della realtà e ne esclude altri.
E’ questo che sottintende il principio del “relativismo linguistico”.
© Giovanni Lamagna
Lingua, pensiero e realtà.
A lingue diverse corrispondono non solo segni e strutture grammaticali e sintattiche diversi, ma anche modi di pensare diversi.
La lingua non è solo un modo di parlare, ma anche un modo di guardare alla realtà.
A lingue diverse corrispondono dunque modi diversi di guardare alla realtà.
E questo, ad esempio, complica, rende estremamente complesso, il compito del traduttore di un testo da una lingua all’altra.
© Giovanni Lamagna
A chi parlo e per chi scrivo
Io non parlo e non scrivo per i cosiddetti filosofi, non mi rivolgo ai filosofi di professione, ai filosofi dell’Accademia, che parlano quasi sempre una lingua difficile, sofisticata, oscura, comprensibile (ammesso che lo sia davvero; molte volte mi sono venuti seri dubbi in proposito) ai soli addetti ai lavori.
Costoro, in generale, tranne alcune lodevoli eccezioni, sono persone che hanno una testa molto grande, ma un corpo ed un cuore molto piccoli, la cui umanità mi appare, quindi, piuttosto modesta; e non attirano, perciò, granché il mio interesse.
Io preferisco parlare e scrivere piuttosto per l’uomo comune, per l’uomo della strada, (perché no?) per chi frequenta i social, purché sia un uomo in ricerca, che si pone domande (ovviamente non banali) su stesso e sul mondo che lo circonda.
Per questo preferisco adoperare un linguaggio semplice, piano, non eccessivamente tecnico, che sia comprensibile ai più; ho sempre avuto un’istintiva resistenza ad utilizzare quello dei circoli ristretti delle Accademie, nei quali ho l’impressione il più delle volte ci si parla addosso, senza vera e autentica passione per la “sophia”.
© Giovanni Lamagna
Due modi diversi di porsi di fronte ad un testo.
Vengo sollecitato a tale riflessione dal commento di una persona, che, dopo aver letto un mio testo (del 14 aprile 2019) nel quale riportavo un passaggio del Vangelo di Matteo (ricavato dall’edizione della C.E.I.), mi rimproverava di non tener conto che dei Vangeli ci sono molte versioni, tra l’altro molto discordanti tra di loro.
Stimolato da questa critica, mi sono chiesto: come ci si può porre di fronte ad un testo, di qualsiasi natura esso sia (letterario, storico, filosofico, scientifico, religioso…)?
A mio avviso gli atteggiamenti possono essere fondamentalmente due:
- il primo è quello del semplice fruitore del testo, di colui cioè che si pone di fronte al testo senza nessuna intenzione o pretesa scientifica, ma al più con un’intenzione di carattere etico od estetico; o, persino, utilitaristico;
- il secondo è quello di chi si pone di fronte al testo con l’atteggiamento scientifico, di chi vuole analizzarne le fonti, il contesto storico, le intenzioni dell’autore, la lingua (dall’uso delle parole alla sintassi)…
Il primo è l’atteggiamento di colui che di fronte ad un testo interroga soprattutto se stesso. E si chiede: cosa ha da dirmi questo testo? in che misura esso mi coinvolge? cosa mi chiede, in termini di comportamenti e di scelte?
Da questo punto di vista il testo è piuttosto un pre-testo; è cioè l’occasione, lo spunto per una riflessione o anche per una semplice reazione emotivo-affettiva, di cui il soggetto fruitore del testo evidentemente avvertiva il bisogno o il desiderio.
Il secondo è l’atteggiamento dello studioso che di fronte al testo si pone in maniera fredda, distaccata, e cerca di analizzarlo nella maniera il più possibile oggettiva, prescindendo cioè dal suo coinvolgimento estetico o morale.
Cerca di vedere cioè il testo in sé, come un oggetto di studio, da tecnico (filologo, storico, critico letterario, archeologo…), senza (necessariamente) farsene coinvolgere in maniera diretta, esistenziale, come persona.
Si tratta di due atteggiamenti, come abbiamo potuto vedere, profondamente diversi.
La cui distinzione mi serve a dire che il secondo atteggiamento non può avere la pretesa, saccente ed arrogante, di soppiantare del tutto il primo e di condannarlo all’irrilevanza, se non addirittura al disprezzo e al ridicolo.
Altrimenti dovremmo concludere che io non posso leggere un testo letterario o religioso o filosofico, se non sono un cultore della materia, ovverossia un critico letterario, un teologo o un filosofo di professione.
A questo punto avremmo le librerie e le biblioteche chiuse, le chiese e i templi senza fedeli, le conferenze dei filosofi deserte.
In maniera ancora più banale e per usare una metafora, potremmo arrivare a dire che nessuno dovrebbe poter innamorarsi o anche solo diventare amico/a di un’altra persona, senza aver prima fatto uno studio approfondito, diciamo pure “scientifico” (anagrafico, familiare, psicologico, sociologico, genetico, storico-biografico…), su questa persona.
Appare a tutti subito evidente il carattere ridicolo di una simile pretesa.
A mio avviso le due possibili interpretazioni di un testo, di cui ho parlato sopra, sono entrambe legittime, a condizione di tenerle ben distinte e che l’una non voglia invadere il campo dell’altra.
Certo, io non posso ambire a dare un’interpretazione da studioso del testo senza averne gli strumenti tecnico-scientifici adeguati. Devo sapere che, senza questi strumenti, la mia interpretazione si fermerà al livello emotivo-affettivo o etico-esistenziale. Che non mi pare poco, però.
Ma, allo stesso tempo, il tecnico, studioso e cultore della materia, deve essere pure lui ben consapevole che anche la sua è un’interpretazione parziale del testo, fin quando da esso non se ne farà coinvolgere anche in maniera emotivo-affettiva e, in certi casi, perfino etico-esistenziale.
© Giovanni Lamagna