Archivi Blog

Cosa vuol dire essere autentici?

Per me vuol dire essere innanzitutto connessi col proprio Sé profondo.

Questa connessione non è mai scontata, nel senso che non è un dato naturale, congenito. Ma è il risultato di una ricerca e, soprattutto, di un lavoro interiore.

Per natura ognuno di noi tende ad apparire, più che ad essere se stesso. Tendiamo, cioè, ad offrire di noi un’immagine migliore di quella che in realtà ci appartiene. Perché ci illudiamo (e spesso, a dire il vero, ne abbiamo conferma) che spendere un’immagine migliore di quella reale di Sé è conveniente sul mercato delle relazioni.

Ma di quale mercato in questo caso si tratta? Del mercato economico delle relazioni, quello dove è in gioco la competizione, il successo, la fama, la gloria, il potere, il denaro. Che non garantisce però la verità, l’autenticità e, quindi, il calore, la profondità, la sincerità delle relazioni.

Per poter sperimentare le vere, autentiche relazioni, quelle dove regna il calore della gratuità e non l’interesse e la convenienza dello scambio (in qualche modo sempre di natura economica) occorre che noi mostriamo il vero Sé e non il Sé “migliore”, che talvolta (anzi sempre) è un falso Sé.

Occorre che ci mostriamo nudi e che l’altro faccia altrettanto. Solo nella nudità, il più possibile completa, i Sé si incontrano.

Quando invece indossiamo una maschera, per apparire migliori di quello che in realtà siamo, si incontrano le maschere e non le anime che si nascondono dietro le maschere.

Allora l’incontro è un finto incontro. Il contatto vero diventa impossibile o è solo superficiale.

Quanti uomini politici, di potere o uomini di affari straricchi sono circondati da folle di devoti!

Questo vuol dire che hanno molti amici, molte persone che li amano?

Niente affatto! Spesso, anzi il più delle volte, i devoti hanno bisogno del loro potere e della loro ricchezza. Non della loro umanità.

Ricercano vantaggi o favori. Non il calore umano della relazione.

Il rapporto umano è vero solo quando prescinde dall’interesse. Quando punta all’incontro delle reciproche umanità, nella loro nudità e senza orpelli.

Giovanni Lamagna

Sulla nonviolenza.

Un’amica mi chiede: “L’agire non violento è dato dal carattere o dal temperamento? Il reagire non violentemente è comportamentale, caratteriale, di convenienza, pusillanimità o cos’altro?”

Sono domande interessanti, alle quali vorrei provare a rispondere.

L’atteggiamento nonviolento non è certo un dato temperamentale. Il temperamento è, infatti, qualcosa con cui si nasce, è legato ai geni.

Ora (per me) non si nasce nonviolenti, non si è tali per natura congenita. Piuttosto, penso, noi nasciamo aggressivi. Quindi per natura o, meglio, per istinto siamo violenti. Alla violenza siamo portati a reagire con la violenza. Basta vedere i bambini e i loro comportamenti.

La nonviolenza è, invece, una scelta di vita a cui ci si educa. Nonviolenti si diventa, non si nasce.

La nonviolenza, però, può arrivare a rappresentare un dato del carattere, quando essa è una virtù (nel senso aristotelico del termine), quando cioè è diventata un’abitudine, ovverossia un modo abituale, quasi spontaneo e naturale del comportamento di una determinata persona.

Quando io normalmente mi comporto in maniera non violenta, allora si può dire che la nonviolenza è entrata a far parte del mio carattere. Che, come tutti sanno, è una cosa diversa dal temperamento.

Se io, invece, mi comporto in maniera non violenta non per una scelta e un sentire profondi, ma per convenienza o, addirittura, per pusillanimità, allora non mi posso definire affatto un nonviolento. Sono semplicemente un opportunista o un vigliacco.

La nonviolenza (quella di Gandhi, quella di Lanza del Vasto, quella di Aldo Capitini, tanto per intenderci) non ha nulla a che fare con la convenienza e con la pusillanimità.

Il nonviolento non è uno che si nasconde perché gli fa comodo E nemmeno uno che evita il conflitto, perché gli fa paura.

Il nonviolento autentico guarda in faccia l’ingiustizia e la combatte. Pratica, dunque, spesso il conflitto, non lo seda né tantomeno lo elude. Ma lo fa senza ricorrere alle armi (reali o metaforiche) della violenza.

Semmai il nonviolento espone con coraggio il suo corpo e il suo spirito alle offese della violenza altrui. Quando riceve uno schiaffo, porge l’altra guancia, come consiglia il Vangelo.

E non per ignavia o passività. Ma perché, lucidamente e consapevolmente, intende interrompere con il suo comportamento nonviolento la spirale senza fine di violenza che, con una scelta diversa, inevitabilmente si innescherebbe.

Giovanni Lamagna