Archivi Blog

Cosa distingue il filosofo dal non filosofo

Il non filosofo è colui che non si fa venire nessun dubbio sul fatto che le cose debbano andare così come vanno.

E’ colui che segue la corrente, il gregge. Nel migliore dei casi il suo istinto e le sue emozioni: insomma, i suoi impulsi primari.

Il filosofo è, invece, colui che si pone domande su tutto, che non dà mai niente per scontato.

Non che sia indeciso – come si potrebbe pensare –  su tutto e, meno che mai, bloccato, paralizzato nelle sue decisioni e azioni.

Il filosofo semplicemente (a differenza da chi filosofo non è) non si fa trascinare dalla folla né dai suoi impulsi primari.

Il filosofo è colui che sempre, prima di agire, si pone la domanda: faccio bene a sentire, pensare o fare così o sarebbe meglio che sentissi, pensassi e facessi in un altro modo?

E’ colui che sospetta dei suoi istinti e, persino, delle sue emozioni e dei suoi sentimenti.

Non che ne sia privo. Non che sia freddo come il marmo e compassato come colui che ha raggiunto lo stato dell’atarassia o quello del nirvana.

No, il filosofo è un uomo come tutti gli altri, con i loro stessi istinti primordiali e le loro stesse passioni.

Solo che, più della maggioranza degli altri uomini, sottopone istinti e passioni al setaccio, al filtro continui della ragione e della consapevolezza, prima di dare loro briglia sciolta.

Sta tutta qui la sua specificità.

Tutti gli uomini, come hanno già detto e scritto molti altri e ben più autorevoli di me, sono potenzialmente filosofi; non tutti però si educano ad esserlo effettivamente.

@ Giovanni Lamagna

Tre modi di rapportarsi al piacere

Ci sono tre modi di rapportarsi al piacere.

Il primo è quello di assecondare indiscriminatamente tutti gli stimoli che ci provocano, ci spingono a provare piacere.

Il secondo è quello di difendersi indifferentemente da tutti questi stimoli, ignorandoli, rimuovendoli, quasi anestetizzandoli.

Sia detto per inciso: gli stimoli al piacere possono provenire sia dall’esterno (il più delle volte) sia dall’interno (meno spesso, ma può succedere).

Questi due modi (estremi) di rapportarsi al piacere sono entrambi contro la vita e, quindi, malsani, nevrotici, se non addirittura psicotici.

Il primo modo, infatti, se protratto nel tempo, conduce alla dissipazione interiore, ad uno smembramento progressivi e sempre più gravi dell’apparato psichico, che perde così ogni confine, ogni controllo, ogni identità.

Il soggetto, che persegue un godimento senza limiti (senza Legge: direbbe Lacan), potremmo anche dire bulimico, assecondando tutti gli stimoli al piacere, come è portato a fare il bambino, specie nella fase orale del suo sviluppo, diventa una zattera in balia delle onde, una “folle banderuola” al vento.

Il secondo modo di rapportarsi al piacere, opposto al primo, porta il soggetto ad una sorta di apatia, di atarassia psichica, nella quale tutto il mondo, quello esterno e quello interno, gli diventa indifferente , incolore ed insapore.

Il soggetto erge tra sé e gli stimoli al piacere una sorta di muro, di barriera, che gli dà un perfetto controllo e dominio su di essi, ma lo rende anche del tutto insensibile, psicologicamente frigido, anoressico, incapace di abbandono e godimento.

Questo modo di rapportarsi al piacere, in alcuni casi particolarmente patologici, porta il soggetto addirittura a preferire il dolore e la sofferenza al piacere a alla gioia di vivere.

In questi casi il soggetto gode non solo della sua capacità di rinunciare al godimento, ma anche e perfino della sua capacità di abbracciare l’opposto del godimento sano e possibile: gode, addirittura, della sofferenza

Il terzo modo possibile di rapportarsi al piacere è quello di vagliare gli stimoli che ci vengono a godere, ogni volta in base al principio di realtà.

Questo consente al soggetto di selezionare gli stimoli, tra quelli buoni e sani, cioè compatibili con la nostra salute fisica e psichica, e quelli cattivi e insani, cioè dannosi per essa.

Per assecondare i primi e lasciarsi andare ad essi, senza inutili e autolesionistiche difese. Quelle che mette in atto, invece, il soggetto vittima della depressione melanconica.

E respingere i secondi, per difendere (come fanno gli anticorpi con i virus) la propria integrità fisica e psichica. Come non fa, invece, il soggetto vittima della euforia bulimica.

© Giovanni Lamagna

Desideri, dolore e felicità.

La rinuncia al desiderio – propugnata dal Buddhismo – non può essere la soluzione al problema dell’esistenza.

Porterà pure al superamento del dolore, come afferma il Buddha, (ed io non ne sono convinto), ma in contemporanea uccide la vita.

Cosa sarebbe, infatti, la vita senza desideri e senza – per quanto limitati – appagamenti dei desideri?

La felicità non può consistere nell’eliminazione del desiderio.

L’eliminazione del desiderio (ammesso che sia possibile) può condurre all’atarassia o, meglio, all’apatia, cioè ad uno stato di (quasi assoluta) insensibilità corporea e quindi di morte virtuale. Non può portare, certo, alla felicità.

Che per l’uomo può consistere (ovviamente in linea esclusivamente teorica) solo nell’appagamento pieno e completo di ogni suo desiderio.

Condizione, dunque, impossibile da raggiungersi per qualunque uomo, anche il più ricco, il più sano, il più bello, il più intelligente, il più sapiente, il più fortunato.

Nessun uomo, infatti, riuscirà mai ad appagare in maniera profonda e completa tutti i suoi desideri.

Nessun uomo, quindi, potrà mai essere del tutto felice, in maniera costante e completa, senza ombre di dolore e infelicità.

La felicità per l’uomo, dunque, ammesso che gli sia concessa in qualche misura, è sempre una condizione provvisoria, precaria, parziale.

Non si sfugge, non si può sfuggire, a questa condizione strutturale dell’esistenza umana. Non c’è stata religione e neanche semplice filosofia di vita che ci sia mai riuscita.

Le religioni tutt’al più sono state capaci di rinviare all’esistenza di un aldilà, di un’altra vita dopo la morte, dove la felicità completa e assoluta (del tutto impossibile su questa terra) ci sarebbe invece finalmente offerta, donata.

L’uomo, dunque, non può che prendere atto della sua condizione fondamentale (di precaria e instabile felicità o, addirittura, in alcuni casi almeno, di prevalente infelicità) e cercare di prendersi della vita il meglio che essa può offrire.

Che, talvolta, in alcuni casi fortunati, non è davvero poco.

Giovanni Lamagna