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Lavoro e scopo della vita.

Ci sono quelli che lavorano per arricchirsi, che non si accontentano di guadagnarsi da vivere dignitosamente col loro lavoro.

E ci sono quelli che lavorano per realizzarsi come uomini, oltre che per guadagnarsi da vivere dignitosamente.

Per i primi lo scopo principale della vita è “avere”, possedere, accumulare il più possibile roba.

Per i secondi lo scopo principale della vita è “essere”, crescere e migliorarsi spiritualmente.

© Giovanni Lamagna

Due modi di pensare

Ci sono due modi di pensare, due finalità e, quindi, modalità di utilizzo del pensiero, che, a pensarci bene, sono radicalmente diversi tra di loro.

Il primo è il pensiero logico, il pensiero che utilizza esclusivamente gli strumenti e il metodo della logica, della mente, dell’intelletto: è il pensiero che ragiona esclusivamente in rapporto a se stesso, in “splendido” isolamento (il pensiero matematico) o tutt’al più in rapporto con e osservando il mondo esteriore, esaminandolo freddamente, sezionandolo, riducendolo a frazioni, ad atomi, riunificandolo, sottoponendolo ad esperimenti (il pensiero delle scienze naturali).

Il secondo pensiero è quello introspettivo, che mira all’analisi di sé, o quello che io definisco contemplativo (Heidegger lo chiama “meditante”), che mira, guarda al mondo altro da sé, ma non per esaminarlo, sezionandolo, squadernandolo freddamente, bensì per comprenderlo, con sguardo sintetico, intuitivo e non analitico, e soprattutto restando in rapporto con il sé, senza cioè separarsi dalle altre dimensioni della psiche, ovverossia dalle emozioni, dai sentimenti, dagli affetti.

E’ (forse) questo il pensiero che muove l’artista (soprattutto il poeta) o che muove il mistico; e che dovrebbe muovere, a mio avviso, anche il filosofo; dovrebbe, ma non sempre lo fa nella realtà.

Perché molto spesso anche il filosofo o, meglio, il filosofo accademico, il filosofo delle scuole e delle Università, mi verrebbe di dire il “presunto filosofo”, il filosofo che vive la filosofia come una professione e non come una modalità dell’esistere, preferisce adoperare il primo e non il secondo tipo di pensiero.

Umberto Galimberti, nel suo libro “Heidegger e il nuovo inizio” (Feltrinelli; 2020), a me sembra dire (a pag. 28), con parole diverse, ma concettualmente affini, riferite in questo caso al filosofo tedesco di cui sta analizzando il pensiero, più o meno le stesse cose che ho inteso dire io poco sopra.

Infatti così scrive: “Rispetto al modo di pensare della metafisica occidentale, Heidegger ha modificato radicalmente e in modo sostanziale la nozione di pensiero, nel senso che, dopo di lui, pensare assume un significato diverso da quello che ha sempre avuto nella metafisica che ha governato il pensiero dell’Occidente. Si tratta, infatti, di un pensiero che rovescia le prescrizioni di quella logica che va alla ricerca di fondamenti scientifici o di fondi a disposizione per l’operare tecnico.

Heidegger addirittura parla di un “abisso” che divide i due modi di pensare, che abitano due regioni totalmente diverse, tra le quali non è possibile costruire alcun “ponte”: “l’unico passaggio possibile è il salto (Sprung)”.

Ed io sono totalmente d’accordo con lui: i due pensieri di cui parlavo prima danno origine a due modi di vivere totalmente e radicalmente diversi.

Il primo, il pensiero scientifico/tecnologico genera un modo di vivere nel quale prevale l’esteriorità e domina, quindi, il valore degli oggetti, dell’accumulare, del consumare e dell’avere.

Il secondo, il pensiero contemplativo/meditante, genera un modo di vivere nel quale prevale l’interiorità e domina, quindi, il valore del dono, della gratuità, della condivisione, della sobrietà, dell’essere.

A seconda se in una società o in un’epoca prevale l’uno o l’altro pensiero essa può essere definita in un modo o in un altro.

La società in cui prevale il pensiero contemplativo/meditante è una società fondamentalmente umanistica, ancorata alla centralità dell’uomo e della natura.

La società in cui prevale il pensiero scientifico/tecnologico va fatalmente verso il post-umano, il post-naturale, l’artificiale e sarà perciò probabilmente definita postumanistica e, addirittura, post-naturalistica.

© Giovanni Lamagna

Il narcisista e l’egocentrico

Quelle del narcisista e dell’egocentrico sono due figure psicologiche per certi aspetti affini (entrambe sostanzialmente asociali, in certi casi persino odiose), ma per altri aspetti, invece, diverse, distinte.

Il narcisista è colui che si piace così com’è, che è appagato dalla sua immagine, che si compiace dunque permanentemente di sé.

Colui che passa la maggior parte del suo tempo a contemplarsi (metaforicamente o, persino, realmente) allo specchio: a rimirarsi, soddisfatto, sazio di sé.

Il contrario della persona inquieta, perché insoddisfatta di sé, che vuole trascendersi per diventare Altro, Altro da sé.

E che, quindi, guarda fuori di sé, a ciò che potrebbe essere e non è; o perlomeno non è ancora.

Il narcisista è conseguentemente, per struttura psicologica, una persona pigra, ferma, immobile, ripiegata su se stessa.

Il contrario di una persona attiva, impegnata, in movimento, che guarda avanti a sé, perché ha una meta da raggiungere.

Potremmo anche dire che il narcisista è, a suo modo, un contemplativo, anche se un contemplativo perverso.

Il vero contemplativo, infatti, guarda fuori, di sé; il narcisista, invece, è incapace di guardare fuori di sé; in quanto l’unico oggetto meritevole del suo contemplare è se stesso.

La sua, più che contemplazione, è dunque auto-contemplazione.

Una contemplazione perciò sterile, infeconda, del tutto improduttiva, bacata, malata.

Diversa, un po’ (o tanto) diversa, è la psicologia dell’egocentrico.

L’egocentrico, infatti, al contrario del narcisista, non è un inattivo, ma è uno che si dà da fare, anzi in certi casi è persino iperattivo.

Solo che fa le cose solo per sé, in funzione di sé, solo se gli servono, se gli sono utili.

E’ incapace, dunque, di solidarietà, anzi persino di attenzione, verso gli altri.

Per l’egocentrico esiste solo lui, gli altri sono solo semplici orpelli, quasi delle cose, oggetti di un mondo inanimato.

L’egocentrico pensa solo a se stesso, per lui gli altri non esistono realmente; infatti, non li vede nemmeno.

L’egocentrico è perciò incapace di amare, se amare significa decentrarsi da sé per vedere ed accogliere in sé l’altro da sé.

Ed è anche una persona che mira ad accumulare: denaro, onori, titoli, fama, avanzamenti di carriera, beni…

Convinto (illusoriamente!) che l’ego (su cui è centrato e in cui si chiude – hortus conclusus – la sua vita) si possa espandere solo nella misura in cui accresce i suoi “averi” più che il suo “essere”.

E, di conseguenza, è anche, fatalmente e inevitabilmente, competitivo, bellicoso, arrivista, a volte persino violento.

Al contrario di chi mira a crescere nel suo essere umano (più che nei suoi averi), che è, invece, per sua natura, altruista, generoso, solidale, dialogante, cooperante, nonviolento.

© Giovanni Lamagna