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Meditare e contemplare: analogie e differenze.

Per me meditare significa raccogliere in sé (quasi col metodo psicoanalitico delle libere associazioni) quante più risonanze è possibile (fisiche, emotive, sentimentali, intellettuali) ci vengono dall’ascolto di un discorso parlato o dalla lettura di un testo scritto.

Si può meditare anche su un’esperienza di vita, riflettendo su quello che è capitato ad altri o a noi stessi e facendo valutazioni, riflessioni, che non coinvolgono solo la mente, ma anche il cuore e, talvolta, perfino il corpo.

Non bisogna mai dimenticare che ciascuno di noi è l’amalgama, l’unione di queste tre cose. Quindi si medita con la mente (innanzitutto), ma si medita anche con il cuore e, persino, con il corpo.

Per me l’immagine più perfetta ed efficace della persona, che ha meditato o che sta meditando, è quella della Madonna nella grotta di Betlemme, assieme a Giuseppe e al bambino, dopo la visita dei pastori; la scena è descritta dal Vangelo di Luca (2,16-19):

16 Andarono in fretta, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia; 17 e, vedutolo, divulgarono quello che era stato loro detto di quel bambino. 18 E tutti quelli che li udirono si meravigliarono delle cose dette loro dai pastori. 19 Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo.

Contemplare per me è, invece, altra cosa dal meditare.

Mentre nel meditare è molto presente il pensiero, anche se – come abbiamo visto – accompagnato dalle emozioni e dai sentimenti e, persino, dalle sensazioni fisiche, nel contemplare il pensiero quasi si assenta, vive un momento di sospensione.

Contemplare per me è come entrare in connessione con il Tutto, con il Cosmo vivente, in tutte le sue varie manifestazioni, è vivere il “sentimento oceanico”, di cui parla lo scrittore-mistico francese Romain Rolland.

Nell’atto del contemplare anche il corpo e le emozioni vivono come una fase di surplace. O, meglio, sono come concentrate su un punto fisso e allo stesso tempo dilatate su una dimensione che tende all’infinito.

Le emozioni e i sentimenti prevalenti sono quelli della meraviglia e dello stupore, gli stessi sentimenti che in genere accompagnano anche la meditazione. In più si aggiungono, forti, intensi, quelli della gioia e della gratitudine.

Una gratitudine che il credente sa bene a chi indirizzare. E, infatti, la indirizza a Dio, Ente Supremo, creatore di tutte le cose, del Cosmo, di cui il contemplativo si sente parte, minutissimo frammento.

E il contemplativo che non è credente (perché esistono anche contemplativi atei: io, ad esempio, nel mio piccolo, mi definisco tale) a chi indirizza la sua gratitudine? Non lo sa manco lui, sa solo che la prova.

E’ una gratitudine, come sentimento primario, istintivo, per l’atto stesso del vivere, per l’unità interiore che sta sperimentando, per la gioia grande che nell’atto del contemplare, almeno in certi momenti, lo invade.

© Giovanni Lamagna

Esperienza mistica e sentimento religioso.

L’esperienza mistica e il sentimento religioso non sono la stessa cosa.

Si può avere, infatti, una esperienza mistica, senza essere allo stesso tempo credenti o fedeli di una determinata religione.

Come, al contrario, si può essere uomini di religione, senza essere per questo dei mistici.

L’esperienza mistica è, nella sua essenza, il superamento del senso di caos e, quindi, di frammentazione e dispersione, che tutti (chi più e chi meno) ci caratterizza all’origine, quando veniamo al mondo.

E che di solito è arginato (ma solo arginato, mai radicalmente e definitivamente risolto) dall’amore, dall’affetto, dalla cura di coloro che ci accolgono al momento della nostra nascita. E che poi si occupano del nostro allevamento e della nostra crescita nel periodo (particolarmente lungo per il cucciolo uomo) in cui non siamo autonomi per il soddisfacimento dei nostri bisogni primari, elementari.

E’, quindi, arginato in primis, dai nostri genitori, laddove essi si confermano come veramente tali. Cioè non semplici trasmettitori della vita del corpo, ma anche di quella della psiche.

Quella mistica è, dunque, l’esperienza di una soddisfacente unità interiore e di una adeguata motivazione al vivere. E’ l’esperienza che la vita ha un senso, per quanto limitato, per quanto tutto interno alla vita stessa, quindi valido per noi e non necessariamente universale, anche quando non se ne trova nessun fondamento metafisico.

Il sentimento religioso, invece, più che un’esperienza è un credo, è una fede.

Ha bisogno, quindi, di un insieme (potremmo anche dire, di un sistema) organico di credenze, al quale il fedele religioso attribuisce in qualche modo un valore universale, perciò dogmatico, anche se non ne può dare nessuna dimostrazione scientifica e manco razionale.

Ecco perché, allora, si può essere dei mistici, senza essere allo stesso tempo credenti o fedeli di una determinata religione.

Come, al contrario, si può essere uomini di religione, senza essere per questo dei mistici.

Anche se, devo ammettere, si può essere allo stesso tempo mistici e religiosi. Anzi, dirò di più: la religione aiuta, dà una mano a diventare mistici.

Come si può intuire tra le righe di questo mio scritto, però, ciò che ha valore essenziale per me è l’esperienza mistica, non l’esperienza religiosa. La prima (azzarderei) è indispensabile al buen vivir. La seconda no. Della seconda si può fare a meno, se si vuole vivere bene. Della prima no.

Giovanni Lamagna