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Recensione del film “Hammamet” di Gianni Amelio

Ieri pomeriggio sono stato a vedere “Hammamet”, l’ultimo film di Gianni Amelio. Esprimo subito e in maniera sintetica l’impressione fondamentale: è un bel film, che si lascia vedere bene, che intriga e, a tratti, perfino commuove.

Lo confesso, sono andato a cinema piuttosto prevenuto: avevo letto nei giorni precedenti qualche articolo di giornale, un’intervista a Favino, qualche dichiarazione dello stesso Amelio e mi ero fatto l’idea che il film, sotto, sotto, avesse un qualche intento riabilitativo, se non addirittura agiografico, nei confronti di Bettino Craxi.

Io, all’epoca, non solo non avevo condiviso (quasi) niente dell’uomo politico-Craxi, ma – diciamolo pure – l’avevo anche cordialmente disprezzato sul piano umano. Perché incarnava l’esatto contrario del mio politico ideale e della mia stessa idea di uomo. Questo, credo, spiegasse bene lo stato d’animo con cui mi sono, dunque, recato a cinema.

Dopo aver visto il film, posso dire, invece, che le mie prevenzioni erano nel complesso del tutto infondate. Perché il film non racconta in primo luogo il Craxi politico, ma racconta soprattutto il Craxi oramai uscito dalla scena politica, distante dall’Italia e, per giunta, molto malato.

Racconta la storia degli ultimi sette mesi di vita di un uomo, che vive oramai isolato, circondato solo dall’affetto dei suoi familiari (soprattutto da quello devoto della figlia e da quello del nipotino, che lo venera come un comandante militare; la moglie è presente, ma è quasi come se non ci fosse: evidentemente non aveva mai avuto un grande ruolo affettivo nella sua vita), una persona ripiegata sui suoi ricordi, misti di nostalgia e di rancore, in lotta sempre più disperata con varie malattie, che ne minano ogni giorno di più la salute.

Il Craxi politico c’è (eccome, se c’è!), ma è sullo sfondo. In primo piano c’è il Craxi uomo, con il suo gradissimo dramma.

Un uomo sconfitto, che non si fa ragione della sua disfatta, che si sente anzi vittima di un complotto ordito ai suoi danni, che prova a spiegare le ragioni delle sue scelte, con l’arroganza di un tempo ancora ben viva, che non prova però più vero odio per i suoi avversari (“che coraggio c’è a parlar male degli altri?”), ma solo tanta rabbia.

Un uomo che si addolcisce solo con il nipotino (col quale gioca, come fanno tutti i “bravi” nonni), che vive un rapporto ambivalente con la figlia, un misto di ruvidezza burbera e di quasi languida tenerezza, che ha dei buonissimi rapporti con la comunità tunisina che lo ospita, che si esercita persino in buone azioni con poveri e bisognosi.

Amelio, insomma, ha voluto (a me pare) essenzialmente descrivere la storia di un personaggio famoso (che questo personaggio avesse le sembianze di un noto uomo politico italiano è stato per il regista calabrese quasi solo un pretesto), un personaggio che ha fatto la storia di una nazione, che ha toccato il vertice della gloria e dei riconoscimenti, e poi cade in disgrazia, rotola nella polvere, come prima di lui nella Storia è avvenuto a tanti altri illustri personaggi. E ci è riuscito benissimo.

Il dramma del racconto sta tutto nel raffronto stridente tra ciò che fu (ascesa al potere, gloria, fama, benessere economico, amori…; non a caso il film inizia con le scene del famoso XVI Congresso socialista, nel quale Craxi raggiunse l’acme della sua carriera politica) e la realtà del presente (dopo le condanne giudiziarie, la debacle politica, la perdita del potere, la fuga ad Hammamet in Tunisia, il sostanziale isolamento, la grave malattia…). Ed è reso con grande maestria narrativa.

Per carità (come già accennavo prima) nel film non è assente la dimensione del Craxi politico.

E d’altra parte essa non poteva mancare, perché Craxi era un animale politico fin nel midollo, totus politicus. Ma non poteva mancare, anche per un altro motivo: perché sarebbe venuta meno la tensione narrativa drammatica tra l’uomo politico trionfatore e quello decaduto.

E però la dimensione politica è solo la dimensione seconda, viene cioè dopo quella umana e privata. Nel film hanno dunque la possibilità di emergere con precisione tutte le tesi e le argomentazioni, che Craxi ha sostenuto fino all’ultimo, non solo per difendersi dalle accuse dei giudici, ma anche per rivendicare orgogliosamente la sua storia politica.

E il regista queste tesi e queste argomentazioni non le sposa affatto, come io (un po’ prevenuto) temevo che fosse. Anche se non le contrasta apertamente, quanto meno le dialettizza, attraverso la figura (bella trovata narrativa questa!) del figlio di un ex amico di Craxi (amministratore del partito, morto suicida) che, per capire cosa ha portato il padre a uccidersi, va a trovare il leader socialista  per intervistarlo e gli pone molte domande, spesso in aspra polemica con lui.

Io, come è ovvio, mi riconosco pienamente nella posizione di questo giovane, che pone a Craxi domande molto scomode e stringenti, che forse, almeno all’inizio, persino lo odia (tanto è vero che aveva addirittura meditato di ucciderlo) e che però, un poco alla volta, nel corso dei lunghi giorni in cui procede l’intervista (ospite a casa di Craxi) si lascia prendere dall’umana pietà di fronte all’uomo sofferente.

A voler fare una sintesi conclusiva: – Hammamet è un film anche politico, ma non in primo luogo politico; – le tesi politiche (quelle favorevoli a Craxi e quelle contrarie) vengono esposte (ovviamente in forma narrativa) in maniera abbastanza obiettiva e per nulla apologetica; – il film è in primo luogo il racconto della dolorosa vicenda umana di un uomo potente caduto in disgrazia; – probabilmente voleva suscitare umana compassione anche in chi Craxi lo ha vissuto come avversario e anche oggi non ne condivide quasi nulla della storia politica; – se questo era uno degli obiettivi, l’ha raggiunto pienamente: con me, almeno, l’ha raggiunto; è, insomma, un film riuscito.

Una menzione a parte la merita l’interpretazione di Pier Francesco Favino, che è semplicemente strepitosa, magistrale, da grande attore, di statura internazionale.

Giovanni Lamagna