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Ancora sulla libertà.

Sartre – almeno il primo Sartre, quello, ad esempio, de “L’esistenzialismo è un umanismo” – considera l’uomo come totalmente libero di fronte alla possibilità di scegliere e decidere le azioni da compiere.

A me sembra che questa tesi pecchi di semplicismo e, perfino, di ingenuità.

Io sono, infatti, convinto – con Freud – che l’“l’Io” (cioè l’uomo cosciente) non sia affatto “padrone in casa propria”, che la sua coscienza sia spesso guidata, se non dominata, dal suo inconscio; e, quindi, niente affatto libera, come, invece, la pensava Sartre.

Esistono, inoltre, tutta una serie di condizionamenti genetici e ambientali, che in molti casi sono vere e proprie determinazioni ad agire (o non agire) in un certo modo.

L’uomo, insomma, in ultima istanza, come ho già detto e ridetto più volte, non è affatto libero, come riteneva Sartre; anche se vive l’illusione di esserlo; e anche se (aggiungo) è condannato ad agire come se lo fosse.

© Giovanni Lamagna

Semplicità e semplicismo

Credo che occorra essere molto rigorosi e netti nel fare questa distinzione: una cosa è la semplicità, altra cosa è il semplicismo.

E che occorra perseguire (con costanza, con metodo, con tenacia) la semplicità come stile di vita.

Ma che sia necessario allo stesso tempo fuggire (con uguale costanza, tenacia e metodo) il semplicismo.

La semplicità, infatti, non si propone e, meno che mai, si sogna di negare la complessità, la difficoltà dei problemi, anzi della vita stessa.

Il semplicismo invece è proprio questo: la negazione, la rimozione della complessità, in nome dell’approssimazione, della faciloneria, del ricorso alle soluzioni (o, meglio, pseudosoluzioni) che a volte quasi sembrano voler negare l’esistenza stessa dei problemi.

La semplicità non nega la complessità e non parte dal presupposto che già sia tutto chiaro, anzi semplice, in partenza.

La semplicità ha come suo primo obiettivo quello di rendere chiaro il problema, che all’inizio, in molti casi, non lo è affatto.

E, per raggiungerlo, non si limita solamente a semplificare il linguaggio; cosa che, almeno in certi casi, è del tutto impossibile.

Cerca solo – almeno ci prova – di rendere il linguaggio quanto più accessibile al maggior numero di persone possibile.

Senza però mai farlo scadere al livello della superficialità, dell’approssimazione, se non della vera e propria banalità.

La semplicità, inoltre, non nega, né rimuove le contraddizioni (logiche, filosofiche, teoriche, materiali, economiche, sociali, culturali, politiche…) ed i conflitti che da esse derivano.

Prova solo ad individuare i percorsi, i metodi più adatti ed efficaci per affrontarle e possibilmente risolverle.

Nel suo procedere non fa mai credere, anzi non dà mai neanche lontanamente a intendere, che il suo cammino sia tutto rose e fiori, solo avanzamenti e successi, applausi e premi.

Ammette e riconosce i fallimenti, i punti di crisi, le sbandate, gli arretramenti, così come evidenzia gli avanzamenti e i risultati ottenuti.

Per concludere, la semplicità non è una dote di natura, quasi fosse costitutiva del codice genetico di una persona.

Ma è il frutto di una vera e propria ascesi, di un lavoro faticoso, a volte duro, innanzitutto su stessi.

La semplicità, in altre parole, è il punto di arrivo di un percorso intellettuale, etico e, perciò, spirituale, che tende ad affinarsi ed elevarsi sempre più nel corso del cammino; non è mai il punto di partenza di una vita.

Può e deve essere considerata, dunque, una virtù e non una qualità innata, come lo sono (per fare degli esempi) la bellezza fisica o il quoziente intellettuale.

Si diventa semplici, così come si diventa colti, saggi, educati, buoni…

Si nasce infantili e si corre il rischio di rimanere tali o di diventare dei sempliciotti, se non si fa un lavoro serio e, in molti momenti, duro su se stessi.

Non si nasce semplici, come qualcuno crede, confondendo (semplicisticamente, appunto!) la semplicità con la semplicioneria.

© Giovanni Lamagna