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Paternità, maternità, Legge, desiderio e godimento.

Scrive Massimo Recalcati nel suo “La legge della parola” (2022 Einaudi; pag. 106): “… ogni padre rappresenta la Legge senza però mai coincidere con la Legge. E questa non coincidenza dipende anche dal fatto che ogni padre è anche un uomo di godimento. Occorre dunque che il padre insieme alla Legge testimoni il suo desiderio singolare nelle forme del proprio godimento.

Mi riconosco molto in queste affermazioni.

Tra l’altro quello che per Recalcati vale per un padre per me vale anche per una madre.

Nel testo da me citato Recalcati nomina il padre, ma, a mio avviso, solo perché sta parlando di Noè, cioè di un maschio.

Ma io ritengo che entrambi, sia un padre che una madre, (e credo che Recalcati sarebbe d’accordo con me) devono (o dovrebbero) essere testimoni del proprio desiderio nei confronti dei figli, entrambi devono (dovrebbero) rivendicare il loro (buon) diritto al godimento.

Anteporre, privilegiare, in presenza della prole, l’interesse per i figli alla cura del loro rapporto coniugale, sacrificare i propri desideri e il proprio godimento in nome dell’amore quasi esclusivo da dedicare ai figli, sono scelte che rappresentano una deformazione, anzi una vera e propria perversione, del ruolo di padre e di madre.

In questo modo i genitori testimonieranno ai figli solo il senso del dovere: la Legge sganciata dal desiderio, come dice Recalcati e come aveva detto, prima di lui, Lacan.

Mentre la vita non è fatta solo di doveri; è fatta indubbiamente di doveri ma anche di piaceri.

E come bisogna adempiere ai propri doveri, così è giusto rivendicare il proprio diritto al piacere, quando questo è compatibile coi doveri.

Il piacere, indubbiamente, deve trovare un limite nel senso del dovere; il “principio di piacere” deve trovare il suo limite nel “principio di realtà”, come sosteneva Freud.

Ma anche il senso del dovere deve riconoscere uno spazio al piacere.

Laddove, infatti, un malinteso “principio di realtà” soffoca – oltremodo e, soprattutto, senza sufficiente motivo – il “principio di piacere”, la persona si ammala.

Quelli in cui ci si concede al piacere sono momenti nei quali possiamo metaforicamente ricaricare le batterie e ritrovare le energie utilizzate per assolvere ai nostri doveri passati, le forze necessarie ad esercitare in maniera adeguata i nostri doveri futuri.

I genitori, dunque, che (per fare un esempio tipico e molto calzante con il discorso che stiamo facendo) mortificano la loro vita sessuale (nel senso che la ridimensionano in maniera importante o addirittura vi rinunciano, come succede in alcuni casi) per dedicarsi anima e corpo alla cura e all’allevamento dei figli, tradiscono in questo modo (per venire al discorso da cui siamo partiti all’inizio) il loro desiderio in nome della Legge.

Una legge scritta da nessuna parte, ma che evidentemente è ben incisa nel loro Super-io.

Una legge legata a sensi di colpa oscuri, malsani, che nulla hanno a che fare col “principio di realtà” di cui parlava Freud.

E, in questo modo, trasmettono ai loro figli una versione sbagliata, deforme, unilaterale, sacrificale, masochista, della Legge.

Iniettando in loro veleno (sia pure senza volerlo e senza esserne consapevoli), trasmettendo loro i germi di future nevrosi e, nei casi più gravi, addirittura di psicosi.

© Giovanni Lamagna

L’uomo e la Legge.

Non ci sono dubbi che il godimento senza Legge, senza cioè limiti e confini, porta alla “distruzione della vita”, cioè alla morte.

Così come affermato da Lacan prima e, sulla sua scia, da Recalcati poi (vedi “La legge della parola”; 2022 Einaudi; pag. 33).

E, però, chi stabilisce il limite, il confine al godimento; in altre parole chi instaura la Legge?

A mio avviso, non può essere un’autorità esterna; non può essere manco Dio; meno che mai possono esserlo gli uomini, per quanto nella forma organizzata della società.

In ultima istanza, allora, la Legge, l’unica Legge a cui siamo tenuti ad obbedire, è la Legge della propria coscienza.

Che – sia ben inteso – non è l’anarchia, il caos dell’assenza di leggi; come qualcuno (superficialmente) potrebbe intenderla; ad esempio, il principe Ivan, quando ne “I fratelli Karamazov” afferma: “se Dio non esiste, allora tutto è possibile”.

Perché la Legge della propria coscienza, se rettamente intesa e, soprattutto, se ascoltata e seguita, può essere molto più severa di qualsiasi altra Legge che proviene dall’esterno; fosse anche la Legge di Dio.

La Legge che ci è imposta dalla nostra coscienza è, infatti, null’altro che la presa d’atto della Realtà, è la legge freudiana del “principio di realtà” che si oppone al “principio del piacere”.

E’, quindi, la coscienza del limite: il limite costituito dall’impossibile: a me piacerebbe volare gettandomi dal balcone, ma ciò non mi è possibile; se lo facessi, mi sfracellerei.

Il limite costituito dalla presenza/esistenza dell’Altro: la mia libertà finisce dove inizia quella dell’Altro.

Se voglio, infatti, entrare in relazione con l’Altro, devo accettarne l’esistenza, accoglierne la presenza; e queste rappresentano oggettivamente un limite alla mia libertà, non solo un dono d’amore potenziale.

Inoltre, se – come afferma Gesù – è la Legge al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio della Legge, allora davvero l’unica Legge a cui l’uomo deve obbedire è quella che gli detta la propria coscienza.

Il che non vuol dire che l’uomo possa e debba prescindere dalla Legge di Dio e manco da quella degli uomini.

Vuole dire che ogni legge (quella stabilita dagli uomini e persino quella attribuita all’autorità divina), prima di essere da noi osservata, deve (o, meglio, dovrebbe) passare al vaglio della nostra coscienza.

Che in ultima analisi, quindi, è l’unico parametro che può definire il confine tra la legge giusta e la legge ingiusta.

Perché anche questo bisogna dire: non tutte le leggi stabilite dagli uomini, persino quelle che gli uomini attribuiscono all’autorità di Dio, sono giuste.

Molte leggi, un tempo giudicate giuste e insindacabili, si sono rivelate poi, col trascorrere del tempo storico, ingiuste e quindi da superare, anzi rinnegare e persino condannare.

Pensiamo alle leggi che riconoscevano la schiavitù o la disparità tra i sessi; o anche alle usanze (in qualche modo divenute leggi: del costume di una società, se non del suo diritto positivo) che antepongono la forma alla sostanza.

La Legge, le leggi, non vanno dunque viste come principi insindacabili, a cui bisogna obbedire sempre e comunque.

In altre parole, come diceva don Lorenzo Milani, “l’obbedienza non è più una virtù”; affermazione che io chioserei così: “l’obbedienza non è sempre una virtù”.

© Giovanni Lamagna