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Sui sensi di colpa.

Non tutti i sensi di colpa sono uguali: esiste un senso di colpa insano e un senso di colpa sano.

E’ un senso di colpa insano quello di Adamo ed Eva, che si coprono il viso, provano vergogna perché si scoprono nudi, appena dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.

Eppure hanno fatto quello che dovevano fare, quello che erano destinati a fare, per diventare pienamente umani, adulti e non restare più bambini: conoscere il bene e il male, prendere consapevolezza della radicale differenza tra il bene e il male e della possibilità conseguente di scegliere tra l’uno e l’altro.

Se non avessero mangiato quel frutto, Adamo ed Eva sarebbero rimasti per sempre immaturi, infantili; beati, ma beoti; avrebbero quindi tradito la loro umanità.

E’ un senso di colpa sano, invece, quello che a volte ci perseguita, ci tallona, quando tradiamo il nostro desiderio, il nostro daimon, la nostra vocazione profonda, il desiderio che ci chiama a realizzare noi stessi.

E’ un senso di colpa sano quello che proviamo quando, per obbedire ad un comandamento che ci viene da fuori, non obbediamo al comandamento che ci viene da dentro, quando non ci assumiamo la responsabilità delle nostre scelte e decisioni.

E’ sano, nel senso di vitale, quel sentimento che ci fa sentire in colpa per le nostre timidezze, paure, insicurezze, pigrizie; in una sola parola: per la nostra accidia.

E’ il senso di colpa che probabilmente comunque avrebbero avvertito Adamo ed Eva, se non avessero mangiato il frutto dell’albero del bene e del male, se, per restare comodi, beati, a sfruttare gli agi che assicurava loro il Paradiso terrestre, non avessero seguito la loro vocazione profonda a conoscere, fosse pure il male (ma esiste il bene senza il male? si può conoscere il bene senza conoscere anche il male?).

E’ insano il senso di colpa che alcune volte proviamo per aver avuto coraggio, per aver sfidato la norma sociale, la convenzione, che ritenevamo in cuor nostro ingiusta, per aver creato noi una nuova norma, più in accordo con la nostra coscienza (fosse anche valida solo per noi), per essere diventati dunque un po’ più padroni di noi stessi e non asserviti al volere di altri o al pensiero comune.

E’ sano, invece, il senso di colpa opposto, quello che proviamo quando non abbiamo il coraggio che ci viene richiesto in alcune circostanze, quando preferiamo seguire la corrente, anziché andarle contro, intrupparci nel gregge, anziché uscirne, lasciarsi andare al corso delle cose, facendocene trascinare, senza prendere in mano la nostra vita e diventarne attori protagonisti e non comparse anonime.

Credo sia sufficientemente chiaro a questo punto quello che intendevo dire all’inizio: non tutti i sensi di colpa sono uguali; ce ne sono alcuni che hanno ragion d’essere e sono quindi sani, altri del tutto infondati e perciò insani.

© Giovanni Lamagna

Bicchiere mezzo pieno o bicchiere mezzo vuoto?

Ognuno di noi tende a misurare il valore della propria vita (ma potrebbe fare la stessa cosa anche con ogni singolo momento di essa o con ogni sua azione) o in base al criterio di “ciò che è” e di “ciò che è stato” o in base al criterio di “ciò che avrebbe potuto essere e non è stato”.

A seconda se questo valore lo misuriamo col primo o col secondo dei due criteri, ne possiamo far derivare giudizi anche molto diversi tra di loro.

Per esemplificare, io posso valutare tutto sommato abbastanza soddisfacenti la mia vita o la mia singola azione o il mio singolo comportamento di un dato momento in base ai risultati raggiunti, soprattutto se li confronto con i risultati raggiunti da altri, in modo particolare dalla maggioranza degli altri.

E valutarli allo stesso tempo insoddisfacenti se, invece, li misuro in rapporto a quello che almeno teoricamente (ma, forse, in alcuni casi anche concretamente, realisticamente) avrebbero potuto essere e non sono stati.

O per mie inadempienze e pigrizie personali o per il contesto ambientale in cui sono nato e vissuto o per le relazioni interpersonali che ho intrattenuto.

Può capitare allora che persone, le quali hanno raggiunto “obiettivamente” grossi risultati nella vita, misurati dal riconoscimento sociale ottenuto, in altre parole dal successo mondano da essi conseguito, ne siano invece, nel loro intimo, nel loro inconscio, più o meno profondamente insoddisfatti.

Perché avrebbero voluto (e, forse, effettivamente avrebbero potuto) raggiungere ed ottenere di più, se solo fossero state un po’ più coraggiose o meno indolenti.

Chi valuta se stesso soprattutto o solamente col primo criterio è in genere una persona che tende ad accontentarsi, che vive la sua vita (almeno quella spirituale, interiore) in modo piuttosto statico, che non ha mai avuto e non ha particolari ambizioni e velleità, che tende quindi ad essere piuttosto indulgente con se stesso.

Che, insomma, di fronte al bicchiere riempito a metà della sua vita, dirà che esso è mezzo pieno e si accontenterà di quanto in esso contenuto.

Chi, invece, adopera soprattutto il secondo criterio, considera la sua vita come un cammino inesausto da percorrere, con un compito o dei compiti da adempiere, che costituiscono il suo daimon, la sua vocazione.

Pertanto sarà una persona in continua (che non vuol dire necessariamente frenetica o spasmodica) tensione ed evoluzione.

E che perciò, di fronte al bicchiere riempito a metà della sua vita, tenderà a vederlo mezzo vuoto e vorrà riempirlo fino all’orlo; o almeno ci proverà.

© Giovanni Lamagna