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Mistico, artista, filosofo.

Ebbene sì, sono attratto dalle figure dei mistici!

Forse più di quanto mi attraggano gli stessi artisti e filosofi.

Perché gli artisti e i filosofi non è detto che siano dei mistici.

Anzi, il più delle volte non lo sono affatto. Anche perché spesso non hanno alcuna intenzione di esserlo.

Sebbene artisti e filosofi abbiano in sé un qualcosa del mistico.

il mistico, invece, ha sempre in sé anche qualcosa (almeno qualcosa) dell’artista e del filosofo.

Il mistico è, dunque, per me la persona più completa che possa esistere dal punto di vista della realizzazione umana.

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Attenzione: chiariamoci bene! Per me il mistico non è solo, anzi non è tanto, colui che si ritira dal mondo, si chiude in un monastero o, addirittura, se ne va da solo su un eremo in montagna o nel deserto.

No, per me il mistico è chiunque (anche colui che vive una vita assolutamente normale e in mezzo agli altri, con un suo lavoro, una sua famiglia, i suoi amici, i suoi svaghi, i suoi hobby, le sue letture…) sia impegnato a ricercare il mistero e il senso della vita e voglia uniformare, conformare i suoi comportamenti, le sue scelte, il suo stile di vita a ciò che egli ha riconosciuto, scoperto, individuato come ciò che dà senso profondo alla sua esistenza.

Il mistico per me non è neanche colui che deve necessariamente credere in Dio, a cui vuole unirsi quasi come in un matrimonio, e nell’esistenza di una vita ultraterrena, alla quale aspira come un bene molto più prezioso di questa vita terrena.

O, meglio, può crederci. Ma non è questa (almeno per me) la caratteristica principale che contraddistingue il mistico da colui (o colei) che mistico non è.

Per me può essere mistico anche chi è ateo convinto e chi pensa che con la morte per lui sia tutto finito.

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E’ artista, per me, chi riesce a cogliere, intuire il bello in modo performativo e a riprodurlo come a chi, non essendo artista, non riesce e non riuscirà mai.

In modo tale che anche chi non è artista ne rimane impressionato e, a sua volta, è in grado di cogliere, intuire il bello che c’è nell’opera prodotta dall’artista.

L’artista in qualche modo ri-crea il mondo, lo fa apparire in forme nuove, prima sconosciute.

Ecco perché, di fronte ad un’opera d’arte, noi spettatori proviamo meraviglia, stupore, un senso di incantamento. Perché di fronte ad essa abbiamo la sensazione di vedere il mondo come se fosse la prima volta.

L’opera d’arte ha sempre un che di magico. E’ questo magico che ci stupisce ogni volta.

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Il filosofo, invece, è, per definizione, un cercatore di verità.

Non sto parlando qui della grande Verità, come assoluto. Che (almeno per me) non esiste. Sto parlando della (piccola) verità, che non ha niente di assoluto, perché è la “nostra verità”.

Intendiamoci il filosofo può anche arrivare alla conclusione che la verità non esiste, che il mondo è solo sogno e che la realtà è destinata a sfuggirci. Può anche essere il più radicale dei nichilisti.

Ma nel momento in cui si pone come filosofo egli sta indubbiamente cercando la verità. O, meglio, la “sua” verità. Non può negarne l’esistenza in anticipo, già in partenza.

Altrimenti da cosa sarebbe mosso il suo atto di pensiero? Abortirebbe ancor prima di nascere.

E, in ogni caso, anche quando nega la possibilità stessa di pervenire a qualche verità, una verità, almeno una, comunque la sta affermando. O almeno questo è il suo pensiero.

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Il mistico anche lui cerca la bellezza.

In più, però, vuole accordare la sua stessa vita alla bellezza cercata e talvolta (almeno talvolta) toccata o, perlomeno, sfiorata.

Il mistico non si accontenta di cogliere la bellezza e di riprodurla in qualcosa di esterno, in un oggetto, la cosiddetta opera d’arte, come fa l’artista.

Il mistico vuole realizzare la bellezza non all’esterno di sé, ma dentro di sé. Vuole fare di se stesso un’opera d’arte.

Ecco perché, a mio avviso, per essere mistici bisogna avere l’anima di un artista.

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Il mistico inoltre è un cercatore di verità. Come il filosofo.

Ma non si accontenta di cogliere la verità come realtà esterna a sé. Come fanno la maggior parte dei filosofi.

Il mistico vuole incarnare la verità a cui giunge, vuole che la sua vita e, possibilmente, anche quella del mondo che lo circonda ne siano trasformate.

Il mistico non si accontenta di una verità astratta, teorica, puramente intellettuale.

Egli vuole diventare, incarnare, il “verbo” stesso, il “logos” stesso, che ha ricercato, ricerca e ricercherà per tutta la vita. Vuole identificarsi con la sua verità.

Giovanni Lamagna

Chi è il mistico per me?

L’immagine più comune e diffusa del mistico è indubbiamente quella di una persona anomala, un po’ strana, forse addirittura un po’ fuori di testa, dedita ad attività di tipo misterioso e iniziatico, un uomo in ogni caso diverso dalla maggioranza degli altri uomini, che si allontana dal mondo per andare a vivere nel deserto o in qualche grotta su in montagna o, nei casi meno estremi, in qualche monastero isolato e distante dai nostri abitati.

Mi chiedo , però, se questa idea molto diffusa (potremmo dire anche stereotipata) del mistico corrisponda alla vera essenza dell’esperienza mistica o non ne ritragga solo la sua immagine più superficiale: quella che più colpisce l’immaginario collettivo o forse quella che l’ha caratterizzata indubbiamente per molte epoche storiche passate e presso varie culture.

E, di conseguenza, mi chiedo: chi è veramente un mistico? Come lo possiamo definire? Che cosa caratterizza e qualifica l’essenza della sua esperienza? Senza fermarsi quindi alla sua sola immagine esteriore e superficiale o alle sole cose che fa.

Prima di rispondere a queste domande credo sia necessario però farsene un’altra che ne è premessa: si può ancora parlare nel ventunesimo secolo di esperienza mistica? Ha ancora un senso farlo?

Premetto subito (comincio quindi a rispondere a quest’ultima domanda) che io considero l’essenza dell’esperienza mistica ancora valida e praticabile oggi, oltre che un’esperienza universale, presente e vissuta in tutte le culture.

Anzi ritengo che l’esperienza mistica, lungi dall’essere superata e oramai inattuale, sarebbe auspicabile si diffondesse e fosse praticata dal più gran numero di persone anche oggi, anzi oggi più che in passato.

Spero di riuscire ad argomentare e a motivare adeguatamente, nel seguito di questa mia riflessione, una tale affermazione, che (ne sono consapevole) può apparire curiosa e paradossale.

E vengo alla domanda iniziale: chi è dunque il mistico per me? Che cosa definisce l’essenza della sua esperienza, al di là delle connotazioni storiche e di quelle culturali che essa ha assunto nel corso del tempo e nei diversi contesti geografici e antropologici?

Comincio col dire allora che il mistico per me è un uomo come tutti gli altri. Che, però, a differenza della maggioranza degli altri uomini, si pone il problema di entrare in connessione profonda e il più possibile costante con l’Altro da sé.

Ben inteso: tutti gli uomini (non solo il mistico) hanno un qualche rapporto con l’Altro da sé. Avvertono cioè (anche se magari in una maniera molto vaga e confusa) che entro di loro abita un’altra persona. Che è allo stesso tempo uguale a sé e altro da sé. Un’interfaccia di sé.

Questo rapporto ha a che fare con l’esperienza che in psicologia viene chiamata “consapevolezza” o “introspezione”. Quell’esperienza per la quale io posso dare del tu a me stesso e colloquiare con esso, quasi fosse un’altra persona.

Che è una caratteristica tipicamente umana, quella che differenzia in maniera netta e radicale la specie umana dalle altre specie del genere animale. Nessun animale, infatti, la possiede. Se non alcuni (pochissimi) animali ed in una misura assolutamente elementare e quasi impercettibile.

E tuttavia non tutti gli uomini hanno lo stesso livello di consapevolezza.

Anzi potremmo dire che ognuno di loro ne ha uno, diverso da quello di tutti gli altri. Ogni uomo possiede il suo specifico livello di consapevolezza.

L’Umanità presenta quindi una vastissima gamma di livelli di consapevolezza.

Si va dai livelli bassissimi dell’uomo bruto, che quasi non ne possiede alcuno. La cui esistenza è quindi paragonabile più a quella degli animali che a quella degli altri uomini.

Fino ad arrivare ai livelli altissimi del mistico, appunto. Che giunge ai livelli massimi di consapevolezza possibile agli esseri umani.

Il mistico non nasce mistico, quasi che il suo essere mistico gli fosse connaturato, congenito. Ma diventa mistico. Anzi decide di diventare mistico.

Lo diventa nel momento in cui fa la scelta di curare, coltivare, far crescere il suo rapporto con l’Altro da sé.

E, a partire da questa scelta, da questa decisione iniziali, che alcuni definiscono (a mio avviso efficacemente) col termine “illuminazione”, ogni giorno diventa un poco più consapevole di sé e del mondo che lo circonda, ogni giorno stringe un rapporto più forte e più stretto con l’Altro da sé.

Il mistico, dunque, non è (in primo luogo o necessariamente) l’uomo strano, stravagante, un po’ folle, che è diventato (e ancora è) nell’immaginario collettivo. Strutturalmente diverso cioè dagli altri uomini.

Il mistico, anzi, nella mia visione delle cose non è neanche necessariamente l’uomo religioso, che dotato della fede in un Dio trascendente, dedica la sua vita (o la gran parte di essa) alla contemplazione di questo Dio che lo trascende.

Il mistico è, invece, per me un uomo come tutti gli altri, che però decide di iniziare un cammino (quello della crescita interiore, cioè della crescita dei propri livelli di consapevolezza) che la maggior parte degli altri uomini evita di iniziare. Che anzi non si pone neanche il problema di iniziare e di compiere.

Il mistico, dunque, lungi dall’essere un uomo che rinuncia alla sua umanità, è l’uomo che realizza al massimo le sue potenzialità di essere umano, cioè di crescita dei suoi livelli di consapevolezza, ovverossia di quel quid che lo differenzia dagli altri animali.

Il mistico è, infatti, colui che diventa, che mette in atto, che realizza ciò che ogni uomo è in potenza, ciò che ogni uomo è chiamato a realizzare. Ma che il più delle volte trascura di realizzare.

Oppure avvia e poi lascia incompiuto. Per pigrizia, per ignavia o per insipienza. O, più spesso, per un intreccio di tutte e tre queste cose assieme.

In altre parole e in estrema sintesi, il mistico non è, in primo luogo e nella sua essenza, il monaco che si chiude nel monastero e meno che mai l’eremita che va nella grotta in montagna.

Non lo è mai stato, ma ancora di più non lo è oggi, che queste scelte un po’stravaganti sono quasi del tutto cadute in disuso.

Il mistico è, invece, un uomo, un qualsiasi uomo, che immerso nella vita quotidiana di tutti gli altri suoi simili, decide di non lasciarsi stordire e confondere dai rumori, dal chiasso, dalla frenesia che lo circonda, per conservare ben custodito dentro di sé un foro interiore e coltivarlo dovunque e in ogni momento come il suo bene più prezioso.

Questo è il mistico per me: l’uomo realizzato, l’uomo sempre presente a se stesso, l’uomo che, pur immerso e confuso nella folla, non si lascia mai conformare dalla folla, l’uomo perfettamente inserito nella società, ma allo stesso tempo l’uomo libero, autonomo, indipendente nei suoi giudizi, mai pecora nel gregge.

Giovanni Lamagna

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Post scriptum

Etimologia dei termini “mistico”, “mistero” e “iniziato” (da Wikipedia).

Il termine italiano “mistico” deriva da quello latino mystĭcus; e questo dal greco antico μυστικός (mystikós), che in questa lingua indica ciò che è relativo ai misteri propri dei culti iniziatici.

In lingua italiana il termine “mistero” indica ciò che sfugge alle normali possibilità di conoscenza, quindi ciò è “enigmatico”, oppure ciò che è indicato come “segreto”. “Mistero” deriva dal termine latino mystērĭum, che deriva a sua volta dal greco antico mystḕrion (μυστήριον).

Ma sia il termine mystikós (μυστικός) che il termine mystḕrion (μυστήριον), derivano dal termine greco antico mýstēs (μύστης), che significa “iniziato”.

Per inquadrare correttamente l’origine greco antica di questi termini occorre, infatti, ricordare, con Walter Burkert (1989) la loro correlazione col termine latino initiatio. Dal momento che “… i misteri erano cerimonie di iniziazione, culti nei quali l’ammissione e la partecipazione dipendono da qualche rituale personale da celebrare sull’iniziando. La segretezza e, nella maggior parte dei casi, un’ambientazione notturna sono elementi concomitanti di questa esclusività.

Il termine mýstēs (μύστης) deriva da μύω (mýo; “celare”). E questo dall’atto di socchiudere gli occhi, che è tipico di chi prega, va in contemplazione e accede al mistero, al sacro. Quale entità che è allo stesso tempo la dimensione più profonda dell’essere e qualcosa di separato da esso; o, perlomeno, dalla sua manifestazione superficiale ed ordinaria. E perciò misteriosa, segreta, colta e sperimentata solo da pochi iniziati.