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Chi si interroga sul significato e il valore della vita è perciò stesso un nevrotico?

Freud, in una lettera a Marie Bonaparte, scrisse: “Nel momento in cui l’uomo si interroga sul significato e sul valore della vita, egli è malato, dato che oggettivamente non esiste nessuna delle due cose; col porre questa domanda uno sta semplicemente ammettendo di avere una riserva di libido insoddisfatta provocata da qualcos’altro, una specie di fermentazione che ha condotto alla tristezza e alla depressione.” (S. Freud; “Lettere 1873-1939”; Boringhieri, Torino 1960, pag.402).

Cosa pensare di fronte ad un’affermazione così drastica e lapidaria?

Personalmente penso che Freud abbia in parte ragione e in parte torto.

Ha ragione perché effettivamente, forse, l’uomo sano, cioè l’uomo non afflitto da nevrosi, non si fa di queste domande. E non ha motivi per farsele.

Perché, infatti, un uomo contento di vivere, soddisfatto della vita che conduce, si dovrebbe chiedere quale valore e significato ha la vita per lui?

Essa li ha e basta: la vita per lui ha valore e quindi significato; egli non ha bisogno di ricercarli in un altrove che non sia la sua stessa vita.

E però Freud, quando scrive le cose di cui sopra, per me ha anche torto.

Perché è vero che il valore e il significato della vita non sono da ricercare in un altrove, fuori della vita; ma non è affatto vero che la vita non abbia alcun valore e significato, come sostiene invece Freud.

Infatti, almeno per l’uomo contento e soddisfatto della sua esistenza, questo valore e questo significato – come ho già detto – stanno nella vita stessa.

D’altra parte non riesco a credere che Freud potesse immaginare un uomo sano, senza “una riserva di libido insoddisfatta”, quindi alieno da tristezza e depressione significative e importanti, che non desse valore e significato alla propria vita.

Inoltre questa idea (dell’uomo dalla libido pienamente soddisfatta, quindi ricco di joie de vivre) è più una categoria astratta e ideale che una situazione reale.

Freud stesso – che ha vissuto la sua vita a contatto continuo e profondo con la sofferenza intima degli altri (dei suoi pazienti) e al quale non sono mancate le sofferenze anche atroci nel corso della sua stessa vita – sicuramente ne era del tutto consapevole.

E allora come poteva non essere ugualmente consapevole che all’uomo – di fronte al dolore e al vero e proprio senso di estraniazione e di alienazione che egli può provare (anche spesso) nel corso della sua vita – viene spontanea, naturale e frequente porsi la domanda: che senso e significato ha la mia vita?

Che è poi la domanda – o almeno una delle domande – da cui nasce la filosofia.

A meno che Freud non considerasse la filosofia stessa una manifestazione di malattia, di nevrosi.

Cosa che non è da escludere, come ci testimonia Ludwig Binswanger nel suo libro “Ricordi di Sigmund Freud”: per Freud “la filosofia non è che una delle più acconce forme della sublimazione della sessualità rimossa”.

E, però, viene da chiedersi: la sublimazione (certamente necessaria per fare filosofia) è sempre segno di nevrosi e malattia?

Se fosse così, Freud sarebbe egli stesso un malato nevrotico (e anche piuttosto grave), visto che il suo pensiero e le sue scoperte sull’animo umano possono a buon diritto e con piena legittimità rientrare e trovare una collocazione non di poco rilievo nella storia della filosofia, di cui la psicologia come disciplina (e, quindi anche la psicoanalisi) è figlia.

Per concludere: sono portato a pensare che Freud nella lettera a Marie Bonaparte, dalla quale siamo partiti, si sia lasciato andare ad un’affermazione paradossale, per estremizzare un concetto.

Ma che non fosse neanche lui stesso del tutto convinto di quello che stava affermando, negando o meglio svalutando il senso di domande che ciascuno di noi si è posto e si pone (anche di continuo) nel corso della sua vita.

E che forse (o senza forse) lo stesso Freud si sarà posto più volte nel corso della sua.

Ora è vero che, almeno in una qualche misura, siamo tutti nevrotici. E su questo concordo pienamente. Non penso, tuttavia, che lo siamo perché ci poniamo domande di questo tipo, sul senso e sul significato della vita.

Anzi, penso esattamente il contrario: che sono proprio gli uomini che non si sono mai posti e mai se le pongono queste domande ad essere i nevrotici più gravi.

© Giovanni Lamagna