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La mia idea di politica.

Per me è sbagliato affermare che la politica è un lavoro come gli altri.

Perché si lavora in primo luogo per una necessità materiale, per guadagnarsi da vivere.

Mentre non si dovrebbe fare politica per guadagnarsi da vivere, come in un qualsiasi altro lavoro.

La politica è (o dovrebbe essere) innanzitutto un servizio – reso gratuitamente – alla comunità, un mettere i propri talenti a disposizione della comunità in cui si vive, perché la sua vita (e quindi indirettamente anche quella di chi si impegna in politica) sia la migliore possibile.

La politica, dunque, per me non è (o, meglio, non dovrebbe essere, come pure un illustre pensatore, quale Max Weber, quantomeno la definì) un lavoro, una professione.

Ma è (o, meglio, dovrebbe essere) innanzitutto una sorta di vocazione, comune (o, meglio, auspicabilmente comune) ad ogni uomo, per la sua stessa natura di essere sociale.

Un modo di essere, quindi, di ogni uomo e non solo di una categoria particolare di persone, che la scelgono come lavoro, una professione (quasi) come le altre.

Che in alcuni casi (eccezionali, però) è (può diventare) – meglio provvisoriamente, cioè per una fase limitata – anche una scelta (particolare) di vita, con un impegno a tempo pieno.

Ma mai col fine primario che essa assicuri un’occupazione e, quindi, un reddito, in mancanza di altra occupazione e quindi di altra fonte di reddito.

Questa è la mia idea di politica!

Come si vede, un po’ diversa (anche se, a leggere bene i suoi argomenti, non molto diversa) da quella di Max Weber, che su questo argomento nel 1919 tenne una memorabile conferenza, il cui testo fu pubblicato qualche mese dopo col titolo di “Politik als Beruf” (“La politica come professione”).

© Giovanni Lamagna

L’impegno politico e la volontà di potenza

L’uomo politico deve necessariamente essere guidato dall’aspirazione al potere, essere dominato dall’ istinto di potenza?

In un passaggio del suo “La politica come professione” Max Weber scrive a proposito del professionista della politica: “L’aspirazione al potere è lo strumento con cui egli si trova ad operare. L’istinto di potenza –come si usa dire – fa in effetti parte delle sue normali qualità.

Sembra, insomma, – a leggere queste parole di Weber – che l’uomo politico o è un uomo di potere o semplicemente non è. Che chi non persegue il potere, chi non abbia ambizioni legate al potere non sia adatto alla politica. Che insomma la politica si risolva in buona sostanza in uno scontro tra volontà di potenza, tra aspirazioni contrapposte al potere.

Weber, però, così prosegue il suo discorso, chiarendo meglio il suo pensiero iniziale e almeno in parte, a mio avviso, correggendolo: “E tuttavia il peccato contro lo spirito santo della sua professione ha inizio laddove quest’aspirazione al potere diviene priva di causa e si trasforma in un oggetto di autoesaltazione puramente personale, invece di porsi al servizio della causa. Vi sono infatti in ultima analisi soltanto due tipi di peccato mortale sul terreno della politica: l’assenza di una causa e – spesso, ma non sempre, si tratta della stessa cosa – la mancanza di responsabilità. La vanità, vale a dire il bisogno di porre se stessi in primo piano nel modo più visibile possibile, induce l’uomo politico nella fortissima tentazione di commettere uno di questi peccati, se non tutti e due insieme.

In questa seconda parte del discorso di Weber le parole-chiave, a mio avviso, sono: – peccato; – causa; – responsabilità; – vanità.

La parola “peccato” sta a dirci che per Weber la professione del politico non solo non è al di sopra della legge, ma che non è manco al di sopra della morale (come molti tendono a ritenere, considerando questa idea quasi un assioma, come se una politica etica o un’etica politica fossero degli ossimori)

La parola “causa” sta ad indicare che la professione del politico si nobilita, trova un senso, se è al servizio di una causa. Una causa, con tutta evidenza, esterna a lui e superiore a lui. Quindi una causa che non coincide con lui

La “responsabilità” è appunto l’atto di assunzione da parte del politico di una causa che gli è esterna, anzi superiore, e al cui servizio dunque egli si pone. Il politico deve rispondere di una causa, ad una causa: in questo senso è responsabile. La politica per Weber, quindi, o è la servizio di una causa superiore o è “irresponsabile”, perciò “peccaminosa”.

La “vanità” è il vizio del politico che, anziché mettersi al servizio di una causa a lui esterna e a lui superiore, trova in sé la “causa” del suo agire. Il politico vanitoso è il politico che agisce per sé, per i suoi scopi e interessi di natura personale e non per una causa a lui esterna e a lui superiore. La vanità in questo senso è il peccato massimo del politico “contro lo spirito santo della sua professione”.

Ma, se questo è vero, allora viene da mettere in discussione la stessa premessa da cui Weber è partito. E cioè che l’uomo politico o è un uomo di potere o non è un vero uomo politico. La premessa per cui sarebbe connaturato all’uomo politico l’istinto di potenza.

Può, infatti, considerarsi uomo di potere, con un connaturato e congenito istinto di potenza, chi non agisce in nome e per conto dei propri interessi e bisogni, ma al servizio di una causa a lui esterna e a lui superiore? Chi non si muove e agisce per perseguire il suo bene privato e individuale ma il bene comune e collettivo?

A mio avviso no. Non si può fare di ogni erba un fascio ed accomunare tutti gli uomini politici sotto la categoria degli uomini di potere.

A mio avviso ci sono uomini politici che perseguono il potere, nel senso che a loro interessa in primo luogo il proprio utile personale, la propria carriera. E bisogna riconoscere che forse sono la maggioranza. Come si potrebbe negarlo? Sono sotto gli occhi di tutti noi. Sono gli uomini politici che negli ultimi tempi si è soliti definire con la categoria (tutta dispregiativa) della “casta”.

Ma ce ne sono anche altri, per quanto forse solo una minoranza, (valgano per tutti tre nomi, Gandhi, Martin Luther King, Mandela, che sono oramai entrati nella Storia) che si pongono essenzialmente al servizio di una causa, che questa causa non la tradirebbero mai, anche a costo di rinunciare al potere che sarebbe a loro portata di mano (se lo barattassero con la “causa”) e, perfino, al potere già raggiunto (laddove per mantenerlo dovessero “tradire la causa”).

Giovanni Lamagna