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Attorno al concetto di “scienza”

Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere” (Karl Popper, Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico).

Dobbiamo distinguere chiaramente tra verità e certezza. Aspiriamo alla verità, e spesso possiamo raggiungerla, anche se accade raramente, o mai, che possiamo essere del tutto certi di averla raggiunta. (…) La certezza non è un obiettivo degno di essere perseguito dalla scienza. La verità lo è.” (Karl R. Popper; Congetture e confutazioni; prefazione italiana, 1985).

Gli attacchi di Popper allo storicismo, all’olismo e alla scientificità della psicoanalisi e del marxismo hanno indotto i teorici della Scuola di Francoforte a considerare che le scienze sociali e umane, come la psicoanalisi, la sociologia e l’economia, su cui si fonda in parte il marxismo, hanno un loro rigore di metodo, per quanto caratterizzato da relativa incertezza rispetto alle scienze naturali. Anche in tali campi esistono criteri per stabilire cosa è frutto di una seria analisi scientifica e cosa è asserzione arbitraria. In quanto Karl Marx e Sigmund Freud utilizzarono metodi ritenuti rigorosi al loro tempo e cercarono di verificare empiricamente le loro teorie, in tanto i loro lavori possono essere considerati scientifici e suscettibili di errore e falsificazione.” (da Wikipedia)

Conosco la critica severa, anzi drastica, demolitoria, che Popper muove alla psicoanalisi Ma non la condivido.

Perché non sono d’accordo con la critica di Popper? Provo a rispondere a questa domanda.

Secondo Popper sono scienze solo quelle discipline le cui tesi sono falsificabili; e, siccome le tesi della psicoanalisi non sono falsificabili, la psicoanalisi non è dunque per lui una scienza.

In altre parole, secondo Popper, sono scienze solo le discipline sperimentali; tutte le altre (quindi anche la psicoanalisi) sono pseudo-scienze o, meglio, non-scienze.

Ora, se fosse vera una tale asserzione, tutte le cosiddette “scienze dello spirito” (che Wilhelm Dilthey opportunamente distingue dalle “scienze della natura”) – cioè la storia, la filosofia, la critica letteraria, la psicologia, la sociologia, l’antropologia… (per citarne solo alcune) – sarebbero non scienze.

In altre parole, almeno il 50/60% (a voler essere riduttivi) di quello che l’Umanità considera il suo patrimonio culturale avrebbe un ben scarso valore cognitivo e intellettuale.

Popper, a mio modesto avviso sbagliando, identifica le scienze tout court con le cosiddette “scienze esatte”.

Io, invece, ritengo (e per questo mi sento molto più vicino alle tesi della Scuola di Francoforte che a quelle di Popper) che ci siano anche scienze non esatte, che non vuol dire siano false, sono solo scienze che utilizzano un metodo diverso da quello che utilizzano quelle esatte: anziché procedere per sperimentazioni riproducibili e, quindi, falsificabili, procedono per osservazioni e, quindi, per approssimazioni alla “verità”.

D’altra parte, se per questo secondo tipo di scienze è impossibile ambire ad una verità assoluta e oggettiva, in parte questo vale anche per le scienze cosiddette esatte, come del resto riconosce lo stesso Popper (si rileggano le due citazioni da me riportate all’inizio).

Quante verità assodate da queste scienze in un dato periodo storico, sulla base di metodologie considerate ineccepibili dal punto di vista scientifico secondo il punto di vista di Popper, sono state poi smentite da successive sperimentazioni, da ulteriori ricerche scientifiche, avvenute in epoche successive!

Quindi manco esse possono essere considerate verità del tutto assolute ed oggettive.

© Giovanni Lamagna

Rivoluzione sì! Ma quale rivoluzione?

Penso anch’io, come i comunisti ed il loro principale pensatore di riferimento Karl Marx, che questo sistema economico, sociale, culturale e politico (“lo stato di cose presente”) vada cambiato, anzi rivoltato, radicalmente, dalla testa ai piedi.

In altre parole penso anch’io che – oggi come ieri – ci sia bisogno di una vera e propria rivoluzione.

Al contrario dei comunisti e di Marx penso, però, che la rivoluzione non possa essere realizzata facendo ricorso all’uso della violenza e attraverso un singolo evento insurrezionale, come lo fu nel 1917 la presa del “Palazzo d’inverno”.

Né, tantomeno, imponendo poi, dopo l’insurrezione armata, la “dittatura del proletariato”.

Penso che la rivoluzione debba essere, invece, il frutto di un processo graduale, paziente, senza scorciatoie, intrinsecamente riformista nei suoi metodi e, quindi, prima di tutto culturale, realizzato facendo ricorso ad un unico tipo di arma: quella della persuasione e del convincimento, persona per persona, una ad una.

E che l’instaurazione di un sistema economico, sociale, culturale e politico di nuova democrazia, sostanziale e non solo formale, debba sempre accompagnarsi, in ogni sua fase, con il rispetto delle regole formali di quella che dai rivoluzionari comunisti viene spesso definita, con “aristocratico” disprezzo, “democrazia borghese”.

© Giovanni Lamagna