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Sulla verità
Una delle domande fondamentali, che si sono posti nel corso dei secoli un po’ tutti i filosofi, è: “esiste la verità”?
Laddove per “verità” si intende una realtà oggettiva, assoluta, valida, universalmente, per tutti e senza possibilità di dubbi e di negazioni da parte di alcuno.
Il mio pensiero è che questa domanda sia mal posta.
In realtà non bisognerebbe chiedersi se esista la verità o, meglio, la verità come l’ho appena definita poco sopra; bensì se sia possibile all’uomo conoscere questa verità, venirne a contatto, possederla.
Perché non ci sono dubbi che LA VERITA’ (come l’ho definita sopra) esista; che la Realtà in sé (non quella che riusciamo a cogliere noi) da qualche parte esista.
Perfino la verità ultima: quella sull’esistenza o meno di Dio o di una realtà di vita dopo la nostra morte.
Ad esempio, questa la scopriremo (in un senso o nell’altro) appunto dopo la nostra morte e, a quel punto, non ci potranno essere più dubbi per nessuno di noi.
Sia per quelli che oggi affermano l’esistenza di Dio e quella di un proseguimento (anche se in forme diverse) della nostra vita dopo la nostra morte; sia per quelli che oggi la negano.
Sicuramente quelli che sono morti di questa verità sono venuti già in possesso, che sia l’una o l’altra.
Il problema, dunque, non è l’esistenza di una Realtà in sé, a cui corrisponda una verità, cioè una conoscenza indubitabile e assoluta, ovverossia uguale per tutti.
Il problema è se l’uomo, cioè ciascuno di noi, possa venirne in possesso mentre è ancora in vita, cioè fin quando può esercitare le sue comuni facoltà intellettuali di essere destinato alla morte (almeno quella fisica).
E qui la risposta si fa incerta, dubbiosa, anzi per me impossibile: l’uomo (almeno mentre è in vita, che poi a quanto mi consta al momento è l’unica vita che ci è concessa) non può venire in contatto con questa Realtà in sé (quella che Kant avrebbe definito “noumeno”), ma di questa Realtà in sé egli può cogliere solo ciò che a lui appare (cioè quella che sempre Kant definiva come realtà “fenomenica”).
Quindi non la “aletheia”, come la definivano gli antichi Greci, ovverossia la Realtà “disvelata, senza veli”, ma, al contrario, la realtà velata, la realtà come appare all’uomo attraverso i filtri dei suoi cinque sensi.
E perciò una realtà “relativa”, diversa da uomo a uomo (diversa in misura piccola in certi casi, grande o, addirittura, molto grande in altri), da ricostruire, provare a ricomporre attraverso il dialogo e il confronto delle posizioni dei singoli, come quando si prova a mettere insieme i tasselli di un puzzle, senza mai però la possibilità definitiva, totale ed assoluta, di far corrispondere la “verità” trovata alla REALTA’ in sé, cioè alla VERITA’ assoluta, totale, immutabile, definitiva, eterna.
In definitiva e per concludere questo mio piccolo ragionamento: LA VERITA’ in sé (forse o potremmo dire anche senza forse) esiste da qualche parte; tanto è vero che noi ne andiamo in cerca, come qualcosa che un tempo abbiamo conosciuto, che poi abbiamo perso e di cui abbiamo insaziabile nostalgia (per riecheggiare l’idea platonica).
Ma l’uomo è “condannato” a cercarla, direi a inseguirla, senza poterla mai raggiungere; l’uomo è destinato ad accontentarsi della “sua verità”, piccola, relativa, parziale, sempre provvisoria, sempre sfuggente.
Ed è già molto se – in alcuni momenti almeno – questa gli potrà apparire (bellissimo miraggio, ma, in realtà solo miraggio!)) addirittura come LA VERITA’, la Verità in sé e per sé, la verità assoluta.
© Giovanni Lamagna
Il fenomeno Maradona
Chi sottovaluta il fenomeno Maradona o lo guarda con snobismo o addirittura lo disprezza non tiene conto a mio avviso di una riflessione memorabile e illuminante che fece anni fa Umberto Eco sulle pagine de “la Repubblica”.
In quell’articolo il filosofo alessandrino indicò quelli che a suo avviso erano (e anche per me lo sono, se posso dirlo in tutta modestia) i cinque bisogni fondamentali di ogni uomo: mangiare, bere, dormire, fare sesso e giocare.
Chi non coglie questo bisogno fondamentale dell’uomo che è il “giocare” non può, appunto, comprendere appieno il fenomeno Maradona, che di questo bisogno era l’espressione massima, elevata all’ennesima potenza.
Sia perché per lui il gioco del calcio era tutto; tanto è vero che io penso egli abbia cominciato a morire il giorno stesso in cui ha dovuto – per raggiunti limiti di età – appendere le scarpette da gioco al classico chiodo.
Sia perché chi ha potuto godere delle sue giocate ha soddisfatto al massimo grado il bisogno tipicamente umano di distrarsi, evadere, almeno per qualche momento, dagli affanni quotidiani, bisogno che può essere soddisfatto solo attraverso il gioco.
Da questo punto di vista (che è l’unico – ma basta e avanza! – per cui vale la pena parlare di lui) Maradona ha regalato non solo a se stesso, ma a tutti quelli che hanno saputo e avuto modo di ammirarlo, delle gioie uniche, incomparabili, insuperabili.
Che non può cogliere, capire e, quindi, condividere, chi, appunto, non comprende il valore e l’importanza del gioco (in questo caso il gioco del calcio, che è però forse il gioco più bello del mondo) nella vita degli esseri umani.
Senza essere ovviamente consapevole che in questo modo rimuove e si nega – in nome a volte di un aristocratico snobismo intellettuale, a volte di un moralismo in questo caso del tutto fuori luogo – una dimensione fondamentale dell’esistenza.
© Giovanni Lamagna