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Vita monastica, vita spirituale, voto di castità e dimensione sessuale del vivere.

La vita monastica ha sempre avuto per me un fascino.

Non posso negare che in certi momenti mi ha attratto addirittura come una possibile scelta di vita.

Perché rappresenta una condizione particolarmente favorevole all’esercizio della vita spirituale.

Ma non poteva diventare la mia scelta di vita, perché essa presuppone il voto della castità.

Esige cioè la rinuncia ad una dimensione del vivere, quella sessuale, che per me, lungi dal rappresentare un ostacolo alla vita spirituale, può significare addirittura un mezzo, una via, di crescita, di elevazione spirituale.

© Giovanni Lamagna

Quando un rapporto può dirsi pienamente riuscito?

Un rapporto (un qualsiasi rapporto, non solo un rapporto cosiddetto d’amore, anche un rapporto di “semplice” amicizia) può dirsi pienamente riuscito quando ciascuno dei due componenti del rapporto è stato capace di andare al cuore dell’altro, dentro al cuore dell’altro, con un movimento reciproco, uguale e contrario, dell’uno verso l’altro e viceversa.

Ma cosa vuol dire “andare al cuore dell’altro”? Non è cosa facile da definire, ma ci provo lo stesso.

Vuol dire cogliere il segreto dell’altro, quel segreto che è nascosto in ognuno di noi.

Significa, quindi, cogliere il mistero dell’altro, la sua parte nascosta, a volte nascosta persino a lui stesso.

Significa attraversare tutte le molteplici “stanze” che formano il suo “appartamento” interiore e andare in quella che è in fondo a tutte, quella che non si fa visitare di solito agli ospiti, manco a quelli più intimi, quella dove di solito si vive da soli, la stanza più privata e meno pubblica.

Significa cogliere dell’altro l’essenza, quel quid che lo fa unico, che lo rende riconoscibile in mezzo a milioni di persone.

Significa cogliere il suo daimon, la sua vocazione, il suo talento naturale, a volte solo potenziale e mai realizzato del tutto.

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Se “andare al cuore dell’altro” significa tutto questo, allora si capisce perché è così raro che un rapporto possa dirsi pienamente riuscito.

Perché questo avvenga è, infatti, necessario che io abbia la curiosità di esplorare l’altro fino in fondo, di non fermarmi alla sua superficie, alla prima immagine che di lui mi viene in evidenza.

Che abbia quindi la capacità di correre il rischio di scoprire cose di lui che non sospettavo, cose che potrebbero arrivare ad inquietarmi e, perfino, non piacermi.

Consapevole, però, che anche la scoperta più sgradevole non potrà diminuire o ledere comunque il piacere legato alla scoperta in sé.

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Parallelamente, in questo cammino di scoperta dell’altro, io, inevitabilmente, non potrò fare a meno di scoprire sempre nuove zone di me.

Perché nessuno può conoscere un altro, se non è disponibile e se non ha imparato a conoscere prima di tutto se stesso.

In fondo, ogni conoscenza esterna è (anche, se non prima di tutto) una conoscenza interna.

Se ho delle resistenze a fare questo, allora anche la mia conoscenza dell’altro si fermerà fino ad un certo punto, se non proprio alla sua superficie.

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Ovviamente, dal momento che un rapporto è costituito da due persone, perché un rapporto possa dirsi riuscito occorre che il movimento, che sono stato disponibile a e capace di compiere io, sia stato disponibile a e capace di compierlo anche l’altro.

Non basta che sia uno dei due ad “andare nel cuore dell’altro”. Occorre che anche l’altro lo faccia. Se lo ha fatto solo uno dei due, il rapporto non è comunque riuscito, non si è pienamente realizzato. E’ un rapporto incompleto.

Per cui (lo ripeto ancora una volta al termine di questa breve riflessione), se per poter avere un rapporto riuscito occorrono tutte queste condizioni, si capisce allora perché è così raro che un rapporto possa dirsi pienamente riuscito.

Giovanni Lamagna

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P. S.  Ho riletto a distanza di tempo questo testo, prima di pubblicarlo: lo avevo, infatti, pensato e scritto alcuni mesi fa. E sento il bisogno di rettificare un concetto in esso contenuto: La mia nuova riflessione, che modifica, in parte almeno, la precedente, la formulo così: non si arriva mai a conoscere dell’altro “l’ultima stanza”.

Per il semplice motivo che non esiste un’ultima stanza. Ciascuno di noi è fatto di un numero pressoché infinito di stanze.

Quando pensiamo di essere arrivati all’ultima stanza, prima o poi si aprirà nel muro di confine “ultimo” un nuovo varco e una nuova porta, che darà accesso ad una nuova stanza.

La nostra conoscenza dell’altro, dunque, come del resto anche la conoscenza di noi stessi, è sempre una conoscenza provvisoria e, quindi, incompleta, in fondo parziale. Resterà sempre una zona misteriosa, ancora sconosciuta e da scoprire.

Forse allora il rapporto pienamente riuscito non è il rapporto in cui non mi resta più nulla da scoprire dell’altro, perché sono giunto al cuore del suo cuore, ma quello in cui restano sempre vivi, palpitanti, la voglia, il desiderio, di scoprire nuove dimensioni dell’altro.

Che poi è esattamente ciò che costituisce il fascino, il piacere, la gioia di un rapporto e che gli impedisce (cosa, a dire il vero, più unica che rara) di scadere nella noia, nella ruotine, nel ripetitivo mortale.

Giovanni Lamagna