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Essere ed esistere.

“Essere” ed “esistere” sono due esperienze molto diverse l’una dall’altra.

L’essere è un’esperienza statica.

L’esistere un’esperienza dinamica.

La prima è delle cose inanimate; anche una pietra è.

La seconda è propria, tipica dell’uomo; solo un uomo esiste.

L’uomo, infatti, al contrario degli oggetti e, in fondo, anche degli altri animali, è chiamato a trascendersi.

Ad “ex-sistere”, appunto; ad uscire da sé per andare oltre sé stesso.

© Giovanni Lamagna

Qual è lo scopo ultimo della specie umana?

Nella risposta ad una lettrice che, su “D la Repubblica” del 31 agosto 2019, si (e gli) chiedeva: “Se l’individualità dell’uomo deve sacrificarsi per la sopravvivenza della specie, qual è lo scopo ultimo della specie? Se il dolore è necessario alla morte dell’individuo per far sì che la specie si perpetui, qual è il significato ultimo di questa?”, Umberto Galimberti così scriveva:

Lei affonda il suo sguardo sul tema più tragico della condizione umana, proprio laddove confliggono le due soggettività che ci costituiscono: la soggettività dell’Io che tutti conosciamo e che dirige la nostra esistenza a partire dai suoi progetti, le sue ideazioni, i suoi sogni; e la soggettività della specie, del tutto indifferente ai progetti, le ideazioni, i sogni dell’Io.

Infatti, ciò che alla specie importa è solo la procreazione che garantisce la sua continuità; per questo ci fornisce di due pulsioni: quella sessuale per la procreazione e quella aggressiva per la difesa della prole.

A che scopo?, lei si chiede. Per nessun scopo, perché, come scrive Schopenhauer: “Il soggetto del gran sogno della vita è uno soltanto: la volontà di vivere”.

Per questo senza ragione cresce l’erba sul ciglio della strada se appena, appena c’è un po’ di terra, senza ragione germoglia un fiore se un po’ di rugiada ne inumidisce il seme.

Ora sia le domande della lettrice che la risposta di Galimberti mi inducono alcune riflessioni che vorrei provare ad articolare.

Non ci sono dubbi che la domanda posta dalla lettrice sia, come dice Galimberti, la domanda centrale del pensiero filosofico. La domanda, del resto, che si pongono un po’ tutti gli uomini, chi più e chi meno, in maniera più o meno cosciente, più o meno approfondita.

Galimberti alla domanda risponde in maniera molto netta e drastica: la volontà di perpetuarsi della specie (quella che Schopenhauer chiama “la volontà di vivere”) non ha alcuno scopo: è semplice volontà di autoriproduzione.

E, secondo me, dà una risposta corretta: anch’io penso che la vita non abbia alcuno scopo meta-fisico, alcuno scopo, cioè, che sia fuori di sé, oltre la vita.

Non c’è, infatti, un’altra vita dopo di questa, un’altra vita (ultraterrena) che dia uno scopo e una giustificazione a questa terrena, come vogliono farci credere la maggior parte delle religioni che abbiamo conosciuto nella storia.

E però mi chiedo: la risposta di Galimberti (che del resto è simile a quella molto nota di Schopenhauer) è del tutto corretta, nel senso che esaurisce le possibilità di risposta alla domanda della lettrice? E qui mi viene qualche dubbio.

Dubbio, che si esplicita, d’istinto prima che di ragione, nella seguente affermazione: no, a mio avviso, la risposta di Schopenhauer e di Galimberti non è completa; e, quindi, non soddisfa del tutto la nostra ragione. Provo ad argomentarla.

La “volontà di vivere” di cui parlano sia Schopenhauer che Galimberti, al livello dei singoli individui, cioè delle singole soggettività umane, non è solo una qualsivoglia volontà di vivere, ma una volontà di vivere ben precisa: è “la volontà di vivere bene” (il più possibile bene), di essere felici (o il più possibile felici).

Non è una pura e semplice volontà di sopravvivenza, comunque sia.

Questo vuol dire che nella natura stessa della specie è inscritto qualcosa in più del semplice istinto alla procreazione, cioè alla propria autoriproduzione: quasi una terza pulsione, dopo quella sessuale e quella aggressiva.

E’ inscritto qualcosa che punta al bene-essere (e non solo, quindi, al semplice essere) e prelude pertanto alla cultura, che è l’insieme della forme che la specie umana ha inventato, per consentirsi, garantirsi, il massimo bene-essere possibile.

Sono inscritte, quindi, già nel programma filogenetico della specie, nel suo DNA: i miti, le religioni, la mistica, la filosofia, la morale, la politica, l’arte, la scienza…

La specie umana, dunque e per concludere, è ben di più che semplice “volontà di vivere”. E’ anche (e io direi soprattutto) volontà di produrre cultura, che potremmo definire anche “volontà di trascendersi”.

L’uomo è, quindi, fatto non solo per generare opere della carne, per procreare (come si limitano a fare gli altri animali), ma anche per generare opere dello spirito.

E questo dà un valore aggiunto e una motivazione ulteriore alla sua “volontà di vivere” su questa terra: quella di “ex-sistere” e non solo “sistere”.

© Giovanni Lamagna