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“Codice materno” e “codice della femminilità”.

Scrive Franco Fornari: “… quando il codice materno tende a perdurare al di là del periodo in cui è funzionale, allora mette in gran pericolo la femminilità” (citato da Massimo Recalcati in “Le mani della madre”; Feltrinelli 2015; p. 115).

Ho sempre pensato anche io che ci fosse un conflitto strutturale (al limite della incompatibilità) tra il “codice materno” e il “codice della femminilità” e in queste parole di Fornari ne trovo conferma autorevole.

Più la donna è “madre” (qui mi riferisco ovviamente alla tipologia caratteriale e allo stile di personalità, non certo al dato reale dell’aver procreato) e meno è, meno riesce ad essere, “femmina”.

Non è vero, invece, (perlomeno non lo è sempre) l’inverso: la “femmina” (anche qui come dato caratteriale e stile della personalità prevalente) riesce (o può riuscire) ad essere (anche) “madre”.

Non solo (ovviamente) nel senso di riuscire a procreare, ma nel senso di riuscire ad essere contemporaneamente anche una “buona madre”.

Naturalmente lo è per una fase limitata della sua vita; fin quando cioè il suo “essere madre” è funzionale all’allevamento del bambino.

Non lo è in modo assoluto e totalizzante, meno che mai definitivo.

Nel senso che il suo “essere madre” non assorbe né, tantomeno nega il suo “essere femmina”, in altre parole non esaurisce per lei tutta la gamma di possibilità realizzative del suo “essere donna”.

Ne deduco che “l’essere femmina” è uno stadio (evolutivo, per così dire) superiore a quello de “l’essere madre”.

E, infatti, può comprenderlo, mentre non è vero il contrario.

Lo stadio di “madre” non comprende, automaticamente, quello di “femmina”.

Anzi – come sosteneva implicitamente Fornari – se lo stadio di “madre” perdura oltre una certa fase (quella funzionale all’allevamento del figlio) tende ad escludere quello di “femmina”, a negarlo, a rimuoverlo del tutto.

E, per conseguenza, – come sostiene Massimo Recalcati – a mettere in grave pericolo anche “il processo di differenziazione tra il bambino e la madre”. (ibidem; p. 115)

© Giovanni Lamagna

La parabola dei rapporti di coppia.

Ad un certo punto succede (non in tutti, ma di certo nella grande maggioranza dei rapporti di coppia) che uno dei due o (ancora più spesso) tutti e due i membri della coppia si “siedano”, come se fossero giunti ad un approdo terminale, definitivo.

Per molti questo approdo coincide col matrimonio; quindi viene raggiunto abbastanza presto nella storia del rapporto, considerato che, in genere, ci si sposa dopo due o tre anni dal momento in cui si decide di “mettersi assieme”.

A questo punto i due diventano del tutto prevedibili l’uno per l’altro e, quindi, scontati; la loro relazione acquista pertanto i colori della malinconica monotonia.

Il rapporto, ovviamente, perde la brillantezza degli inizi, si opacizza; i partner cominciano col parlarsi di meno, continuano via, via col parlarsi sempre di meno e, infine giungono a non parlarsi proprio più.

Nella migliore delle ipotesi parlano di tante cose – degli altri, dei fatti che accadono, delle cose che li circondano, magari e perfino di arte, di filosofia, di scienza, di politica – ma non più di sé stessi.

Quando accade questo, per me il rapporto è psichicamente, spiritualmente, anche se non fisicamente, materialmente, morto.

Tra i due membri di una relazione c’è poi, spesso, se non sempre, chi a questa “morte” si rassegna, dandola per inevitabile e scontata, quasi fosse un esito naturale, fisiologico.

In certi casi entrambi sposano questa rassegnazione e in questo modo la relazione trova un nuovo equilibrio, basato su un tacito accordo, da entrambi condiviso: evitare ogni comunicazione profonda, davvero intima.

Il rapporto può, in questo modo, durare fino a che morte non li separi.

Altre volte, invece, tra i due c’è chi a questa “morte” non si rassegna e scalpita.

O facendo continue richieste (implicite o esplicite) all’altro di cambiamento, di rinnovamento; quasi sempre, però, inutili e fallimentari.

O/e cercando il cambiamento fuori, in un altro rapporto.

In questo caso il membro della coppia che cerca il cambiamento viene considerato il traditore del rapporto: lascio giudicare a voi con quale logica e fondatezza.

Conclusione: per mantenere vivo un rapporto non bisogna mai dare niente per scontato, bisogna continuamente stupire l’altro/a, presentandosi ai suoi occhi come una persona sempre nuova.

Tutto questo esige, ovviamente, cura, attenzione, dedizione, ma io dico soprattutto fantasia e creatività; immaginazione, come diceva Hillman.

Ad alcuni (anzi, forse, ai più) questo può risultare troppo faticoso; per cui viene spontaneo chiedersi, consciamente o inconsciamente: ne vale la pena?

A questa domanda io non ho dubbi nel rispondere: sì, ne vale la pena!

Sarà pure (anzi, è) faticoso, ma è anche l’unico modo per mantenersi vivi.

Non tanto o non solo per mantenere vivo, vitale il rapporto, ma per tenersi vivi come persone, come singole individualità.

L’alternativa è appassire come individui e contribuire, di conseguenza, per la propria parte, all’appassimento inesorabile della relazione di coppia.

© Giovanni Lamagna

Tutto è relativo e provvisorio. Nulla è assoluto e definitivo.

Gli studiosi della storia hanno distinto finora le varie epoche e i vari periodi storici con termini quali “Età antica”. “Medioevo”, “Età moderna”, “Età contemporanea”…

Dimostrando un’assoluta (e, perciò, grave) imprevidenza.

Come se, dopo l’età contemporanea, non dovessero venire altre epoche, ere od età. Come se la storia dovesse terminare col XX secolo.

Come definiranno allora gli storici le epoche successive all’età contemporanea?

Inoltre, potrà chiamarsi ancora contemporanea tra uno o dieci o venti secoli l’epoca in cui ci siamo trovati a vivere, per puro caso, noi uomini del XX secolo?

Credo, perciò, che tra due o tre secoli (ma forse anche prima) tutte le (arbitrarie e perciò provvisorie) definizioni delle epoche storiche dovranno essere riviste ed aggiornate.

Cambiando il punto di vista dello storico osservatore e studioso, cambierà anche la collocazione temporale – e quindi il termine con cui definirla – dell’epoca storica osservata e studiata.

E, infatti, già oggi gli storici, consapevoli dell’inadeguatezza o, meglio, inattualità di certi termini, si affannano, arrovellano a trovarne altri (come “postmoderno” o “ipermoderno”), per definire l’epoca nella quale ci troviamo a vivere, termini che risolvano le contraddizioni delle vecchie (oramai usurate) catalogazioni e terminologie storiche.

Cadendo magari (e, direi io, incartandosi) in contraddizioni (forse) ancora maggiori di quelle che vorrebbero risolvere.

Infatti, tanto per fare un esempio, dopo il postmoderno o l’ipermoderno, cosa dovrebbe venire? Il post del postmoderno? Oppure l’iperipermoderno?

Anche da questo piccolo ragionamento si deduce che tutto è relativo e provvisorio. Che nulla è assoluto e definitivo.

Giovanni Lamagna