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Parola, silenzio, contemplazione.
Wittgenstein, nel suo “Tractatus logico-philosophicus”, si è applicato a studiare il linguaggio.
E ne ha concluso che le funzioni essenziali del linguaggio sono quelle di designare i fatti e gli oggetti e di esprimere le loro relazioni.
Il linguaggio non è capace dunque di parlare di ciò che è oltre i limiti del mondo.
Di questo territorio – che per Wittgenstein è il “mistico” (io preferisco dire il “mistero”) – non si può parlare; si deve allora tacere.
Il “mistico” non può essere espresso a parole; io aggiungerei: può essere solo contemplato.
Non a caso, forse, la contemplazione ha bisogno di silenzio; cioè di assenza di parole.
© Giovanni Lamagna
Quando e come parlare
Hiedegger, nella sua famosa “Lettera sull’ “umanismo”” (1946), afferma: “Prima di parlare, l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere, col pericolo che, sottoposto a questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire. Solo così viene ridonata alla parola la ricchezza preziosa della sua essenza, e all’uomo la dimora per abitare nella verità dell’essere.”
Sono molto d’accordo con questa affermazione. E perciò mi permetto di riformularla con parole mie, più semplici e meno enfatiche. Per assimilarla e introiettarla il meglio possibile.
Prima di parlare, ciascuno di noi dovrebbe chiedersi: da dove provengono queste mie parole? sono frutto della mia voglia di apparire, del mio narcisismo? di un sapere estrinseco, figlio di pura erudizione? o sgorgano da un impulso interiore, profondo e autentico?
Nel primo caso (narcisismo) ed, io dico, anche nel secondo caso (sfoggio di erudizione), faremmo meglio a tacere. Nel terzo caso (ma solo nel terzo caso) sentiamoci pure autorizzati a parlare.
Anch’io però credo, come Heidegger, che, se avessimo questa attenzione e questa prudenza prima di parlare, sarebbero molto meno numerose le occasioni in cui ci sentiremmo autorizzati ad aprire la bocca.
Sicuramente limiteremmo di molto i nostri interventi e in parecchi casi preferiremmo il silenzio alla parola.
E però in quei casi in cui ci sentiremo, da una voce interiore e perciò misteriosa (la voce dell’essere?), autorizzati a parlare, forse la nostra parola, espressione della nostra interiorità profonda, acquisterebbe in intensità e valore.
Non parleremmo, quindi, a vanvera, non faremmo torto alla sacralità della parola.
La parola, la parola che ha davvero senso, è quella che nasce da un profondo silenzio; Heidegger avrebbe detto: dall’ascolto dell’essere o, meglio, della “verità dell’essere”.
D’altra parte non aveva affermato anche Wittgenstein, nel suo “Tractatus logico-philosophicus” (1921): “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”?
Non è proprio lo stesso concetto espresso da Heidegger, ma (almeno per come lo leggo io) gli è di molto affine.
Cosa è, infatti, “ciò di cui non si può parlare”, se non “l’essere” a cui pensava Heidegger?
Di cui, forse, sarebbe meglio tacere (come molto perentoriamente sostiene Wittegenstein), ma a nome del quale si può parlare (sostiene Heidegger), a condizione di esserne stati “reclamati”.
Io traduco: a condizione di essere stati interpellati, incaricati dall’essere, dalla “verità dell’essere”.
© Giovanni Lamagna