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Mistica e sacrificio.

Pur considerandomi un mistico (almeno nelle intenzioni, nelle aspirazioni, nei desideri, non so quanto nella realtà), non ho mai condiviso l’opzione di molti mistici (forse la maggioranza) di scegliere il dolore come ascesi, come via primaria e privilegiata di perfezionamento spirituale.

Trovo in questa scelta un che di insano, che sfiora il masochismo ed in molti casi lo tocca; talvolta, anzi, ne è del tutto permeata, impregnata.

Il mistico, infatti, per me non è chiamato affatto (almeno in prima battuta) a vivere il dolore e manco una vita fatta principalmente di rinunce, come molti immaginano.

Il mistico è chiamato innanzitutto a realizzare i suoi ideali, i suoi valori, religiosi o laici che siano, a vivere quindi una vita piena, felice, niente affatto cupa e sofferente, votata essenzialmente al sacrificio.

Su questa via, sul suo percorso, indubbiamente, può incontrare (e spesso incontra, prima o poi, come del resto accade a tutti i mortali) il dolore.

Ed allora, solo allora, non deve (o almeno non dovrebbe) deviare; solo allora dovrà scegliere il dolore e, perfino, in certi casi, l’estremo sacrificio della vita, perché l’alternativa, in questo caso, sarebbe tradire i suoi ideali.

Ma la sua scelta fondamentale, primaria, (ed è questo che vorrei qui affermare con forza) rimane innanzitutto quella di rispondere alla sua vocazione, quella di non tradire i suoi ideali.

Non è affatto quella del dolore in sé, non è quella di “abbracciare la croce” per amore della croce, come dicono, ad esempio, i cristiani o, perlomeno, molti di loro.

Gesù stesso, d’altra parte, che per me è il prototipo del mistico, non scelse affatto la croce come suo ideale; egli scelse di non tradire, di non rinnegare il “vangelo” che fino ad allora aveva predicato.

E per questo (e solo per questo) accettò anche di essere messo in croce.

Ma non ne fu affatto felice o contento, come alcuni mistici a lui successivi (con l’intenzione – a mio avviso, nata da un fraintendendolo – di imitarlo) hanno inteso fare, dando origine alla cosiddetta teologia del sacrificio e della croce.

Si ricordi, infatti, che più volte nell’orto degli ulivi, Gesù, prima di essere catturato per essere sottoposto a giudizio, supplicò il Padre di risparmiargli “l’amaro calice”.

E, quando fu messo in croce, non lodò affatto il Padre per non averlo salvato, ma gli lanciò quasi un’imprecazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”.

Come a voler sottolineare che il suo desiderio, la sua preferenza (come del resto a me pare del tutto naturale e, perfino, ovvio) erano del tutto diversi: egli avrebbe voluto salvarsi e non morire; meno che mai morire in un modo così crudele, come fu quello di morire in croce.

© Giovanni Lamagna