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Piacere, dovere e terra di mezzo.

Molte persone (forse la maggioranza) non fanno mai una scelta netta tra il piacere e il dovere.

Come ci si aspetterebbe che facesse una qualsiasi persona normale: in alcuni momenti, quando le circostanze della vita lo consentono, facendo prevalere il piacere, in altri momenti, quando le situazioni della vita lo richiedono, facendo prevalere il dovere.

A me pare che molte persone, nella maggior parte delle situazioni che si trovano a vivere, non scelgano mai fino in fondo né il piacere né il dovere; non siano insomma né calde né fredde, ma tiepide sia nei confronti del piacere che del dovere.

Non scelgono fino in fondo il piacere, sono incapaci di fare una scelta radicale in tal senso, perché il più delle volte se ne sentono (sia pure irrazionalmente) in colpa.

Come se la vita non potesse, anzi non dovesse, concedere loro un dono simile, come se a loro questo dono non spettasse mai del tutto.

E così, anche quando (ogni tanto) si concedono al piacere, devono ben presto rientrare in una zona se non proprio spiacevole, quantomeno neutra, come se il piacere non potesse occupare la loro vita oltre un certo spazio e un certo tempo.

Ma, soprattutto, non possono sperimentare il piacere oltre una certa soglia: non ne reggono la tensione e lo spasimo che pure spesso il piacere comporta; per quanto siano una tensione e uno spasimo del tutto piacevoli e per niente dolorosi.

Allo stesso modo (e paradossalmente) queste stesse persone non scelgono neppure fino in fondo il dovere, quando sono chiamate a compierlo.

Almeno se per dovere intendiamo la risposta ad una chiamata interiore e non la corrispondenza passiva e non consapevole alle convenzioni sociali o a ciò che ci viene chiesto dalle imposizioni (a volte solo psicologiche, altre volte anche fisiche) esterne, soprattutto quelle che provengono dalle persone significative che ci circondano.

Se per dovere intendiamo, insomma, non il Super-io freudiano, ma il “principio di realtà” (di cui parlava lo stesso Freud), che ogni tanto (anzi spesso) si oppone al “principio del piacere” o perché ce lo fa vedere come del tutto irrealizzabile o perché ci consiglia di rimandarlo ad altro momento, più adatto, più favorevole.

E – ancora di più, a maggior ragione – se per dovere intendiamo la chiamata a realizzare il proprio compito nella vita (di cui ha parlato spesso nelle sue opere lo psicoanalista austriaco Victor Frankl), il proprio “desiderio” (quello di cui parlava Lacan, che è altra cosa dal capriccio dell’uomo infantile e immaturo), il proprio “daimon”, la propria vocazione interiore (di cui ha invece parlato spesso Jung).

Infatti, a quanti doveri reali, molto più importanti dei “doveri” dettati dal Super-io, queste persone sfuggono?

A quante chiamate interiori e dello spirito esse non corrispondono, preferendo rimuoverle dalla loro coscienza o ignorarle, disattenderle, quando pure esse affiorano e appaiono chiare alla loro consapevolezza?

In altre parole e per concludere, queste persone sono abituate a vivere la loro vita (o almeno la gran parte di essa) come in una terra di mezzo tra il piacere e il dovere.

Per cui non si concedono né pienamente al piacere, alle (poche o molte) gioie che la vita pure sarebbe in grado di donare loro, né pienamente al dovere, inteso come risposta alla propria vocazione interiore, al proprio “desiderio”, al proprio daimon.

Per conseguenza nel primo caso restano persone fondamentalmente insoddisfatte, se non proprio infelici, col bicchiere mezzo vuoto e mai completamente pieno.

Nel secondo caso persone sostanzialmente irrealizzate, incomplete, come chi, avendo cominciato ad attraversare un fiume, si fermi a metà del guado.

© Giovanni Lamagna