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Fraternità e rapporti sociopolitici.

Nel libro-intervista “La speranza oggi” (Mimesis 2019) Sartre afferma (pag. 102) di non credere che il rapporto primario tra gli uomini sia quello di produzione, come sosteneva Marx.

Sartre afferma (in modo quasi sorprendente, conoscendo il suo itinerario filosofico) che “il rapporto più profondo tra gli uomini è quello che li unisce al di là del rapporto di produzione. È quello che fa in modo che essi siano gli uni per gli altri un’altra cosa dall’essere produttivi. Sono uomini. (…) Tutta la distinzione delle sovrastrutture di Marx è un buon lavoro, ma è interamente sbagliato, perché il rapporto primario di un uomo con un altro uomo è un’altra cosa…” (pag. 102)

Sartre fa addirittura autocritica rispetto al suo precedente pensiero, quando afferma: “… se considero la società come l’ho considerata nella “Critica della ragione dialettica”, devo ammettere che la fraternità vi ha poco posto. Se, al contrario, considero la società come il risultato di un legame tra gli uomini più fondamentale della politica, allora ritengo che le persone dovrebbero avere o possono avere o hanno un certo rapporto primario che è il rapporto di fraternità… il rapporto familiare è primario rispetto a tutte le altre relazioni… In un certo senso, formiamo una sola famiglia.” (pag. 102-103)

Sono abbastanza e sostanzialmente d’accordo con queste affermazioni di Sartre; ma non del tutto e non completamente; per cui voglio analizzare ed esprimere la mia posizione in proposito.

Gli uomini (anche per me) nella loro “essenza” (termine nel quale – lo so – Sartre non si sarebbe riconosciuto, ma che io invece ritengo legittimo dal punto di vista filosofico), sono tra loro fratelli, nel senso che appartengono alla stessa famiglia, allo stesso ceppo di origine.

E, però, per essere fratelli, non solo nella loro astratta essenza ontologica, ma anche nella concreta pratica sociale, occorre (la condizione è) che si modifichino radicalmente gli attuali rapporti di produzione, che oggi, quasi sempre, tutto sono tranne che rapporti basati sulla fratellanza.

Per cui il tema della rivoluzione, posto da Marx, ovverossia della modifica dei rapporti di produzione, torna per me immediatamente a galla nella pratica, dopo essere stato apparentemente messo, da Sartre, in secondo piano nella teoria, con le affermazioni che ho citato all’inizio.

Infatti, solo nella misura in cui sarà superata la dicotomia sociale tra coloro che detengono la proprietà dei mezzi di produzione e coloro che ne sono privi e che possono solo offrire sé stessi sul mercato del lavoro (quasi merce tra le merci) per far funzionare i mezzi di produzione di cui attualmente sono proprietari esclusivi i capitalisti, potrà realizzarsi pienamente nei fatti e non solo come potenzialità (legata all’essenza) la fraternità tra gli esseri umani.

Da questo punto di vista torna ancora valida l’analisi marxiana dei rapporti economici come struttura fondamentale di ogni altra relazione.

Si può, infatti, definire fraterna una relazione nella quale uno è padrone (il capitalista) e l’altro è, se non proprio il servo, quantomeno il sottoposto?

Si può definire fraterna una relazione così sbilanciata, nella quale non solo le proprietà e i redditi, ma anche e soprattutto i poteri, sono così difformi e ineguali?

Per me l’eguaglianza (nella proprietà dei mezzi di produzione) è l’altro nome della fraternità.

Come lo è- d’altra parte e sia detto per inciso – della libertà.

Una fraternità senza uguaglianza è pura ipocrisia, è buonismo senza vera sostanza.

Così come la libertà senza uguaglianza si riduce a quasi vuoto formalismo.

La crisi delle odierne democrazie – se non bastasse già l’analisi teorica – sta lì a dimostrarlo in tutta la sua macroscopica evidenza.

© Giovanni Lamagna

Catene esteriori e catene interiori.

Marx vuole liberare il lavoro dalle catene esteriori, dalle catene di chi – il capitalista – asservisce il lavoro e lo rende, in pratica, una merce come le altre, un fattore della produzione come gli altri, al pari delle macchine.

Marx, però, non sembra altrettanto consapevole che il lavoro è servo anche di altre catene, catene interiori, interne cioè al lavoratore stesso, che il lavoratore tende a darsi da solo.

Catene di cui, tra l’altro, è schiavo lo stesso datore di lavoro: il capitalista.

Queste catene consistono nella tendenza all’iperattività, al prevalere della vita attiva su quella contemplativa, anzi della “vita laborans” sulla stessa “vita activa”, almeno per come la intende Hannah Arendt.

Con l’iperattività della “vita laborans” il fine del lavoro non lo decide l’uomo (lavoratore o capitalista da questo punto di vista fa poca differenza), ma la dicotomia stessa del lavoro, della vita produttiva.

Il lavoratore, ma anche lo stesso capitalista, non sono padroni del loro lavoro, ma semplici ingranaggi di un meccanismo, di un sistema che li sovrasta e che determina le loro decisioni.

Da questo punto di vista il film di Charlie Chaplin “Tempi moderni” andrebbe aggiornato con il lavoratore e il datore di lavoro trascinati entrambi dallo stesso ritmo vorticoso degli ingranaggi delle macchine: ingranaggi tra gli ingranaggi.

Il lavoratore – per diventare veramente e completamente libero – si deve liberare anche da queste catene, puramente interiori, psicologiche, e, quindi, perfino più subdole di quelle esteriori.

Queste seconde, infatti si vedono molto chiaramente e sono facilmente smascherabili. Le prime si vedono meno, sono meno vistose, e perciò più difficili da eliminare.

Marx vide con molta lucidità le seconde, ma, forse e per quello che ne so, si accorse poco (o niente) delle prime.

Giovanni Lamagna