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Dio (o la mancanza di Dio) e l’angoscia della morte.

Pierre Hadot (nel suo “La filosofia come modo di vivere”, p. 144) afferma che nella filosofia contemporanea “non si cerca, come nell’Antichità, di eliminare l’angoscia della morte”.

A suo dire “questa coloritura angosciosa”, che la filosofia contemporanea non si pone il problema di (o non sa come) curare, è “del tutto assente in Spinoza, Epicuro, gli stoici e Platone”.

Ora io credo che questa angoscia, che caratterizza così profondamente la filosofia contemporanea, sia strettamente legata alla “morte di Dio”, alla solitudine tragica in cui l’uomo si è venuto a trovare dopo questa “morte”.

Perché sicuramente anche gli antichi (lo afferma pure Hadot) provavano il “brivido di fronte all’Ungeheure, il terribile, il prodigioso o il mostruoso”.

Solo che gli antichi, di fronte a questo brivido, erano, bene o male, confortati dalla presenza del divino (nelle molteplici e variegate forme che esso assumeva) nelle loro vite.

I contemporanei, invece, (di fronte al terribile, al prodigioso e al mostruoso che continua ad essere ben presente anche nelle loro vite) sono rimasti soli, sono tragicamente soli.

Di qui, a mio avviso, l’angoscia che caratterizza la filosofia contemporanea, “a partire da Goethe, Schelling, Nietzsche”, come mette ben in evidenza Hadot.

© Giovanni Lamagna

Consapevolezza e inquietudine.

14 agosto 2016

Consapevolezza e inquietudine.

Nel libro che sto leggendo, “Ricordati di vivere” di Pierre Hadot, trovo scritto a pagina 19: “Il tratto peculiare dell’uomo antico è rallegrarsi spontaneamente e inconsapevolmente  della propria esistenza, senza passare, come fanno i moderni, attraverso le vie indirette della riflessione e del linguaggio. Proprio questa è, agli occhi di Goethe, la salute antica. Come Plotino, avrebbe accettato volentieri di considerare che la salute è incosciente in quanto conforme alla natura, e che la coscienza corrisponde a una condizione di inquietudine, a uno stato di malattia: più un’attività è pura e intensa, meno è cosciente.”

Non sono per niente d’accordo con la visione di Goethe e con quella di Plotino.

E non solo perché (come fa notare opportunamente Hadot) “…questa rappresentazione idilliaca della gioia spontanea e della salute dei Greci non corrisponde affatto alla realtà storica. L’uomo antico era inquieto e angosciato quanto l’uomo moderno. Come noi portava il fardello del passato, provava ansie e speranze per il futuro, nutriva il timore della morte.”

Non solo perché “Ben prima dell’analisi pascaliana della noia, gli antichi avevano provato il vuoto interiore, l’odio di sé, l’angoscia di trovarsi soli con se stessi che caratterizzano l’essere umano.”

Ma anche e direi soprattutto perché senza la riflessione e il linguaggio l’uomo semplicemente non sarebbe uomo.

E’ vero, come sostiene Plotino, che la coscienza introduce inquietudine. Perché, nel momento in cui alla beata incoscienza degli animali si sostituisce la coscienza degli umani, nulla è più scontato come prima. E l’uomo non potrà più agire in base al meccanismo automatico degli istinti. E ogni volta, di fronte a un giudizio da dare, ad un’azione da compiere, ad un’opera da costruire, dovrà porsi le domande fatidiche: cosa è più giusto? cosa è più vero? cosa è più utile? cosa è più bello?

Ma è anche vero che qui è quel poco di libertà di cui l’uomo può godere: la libertà di scelta tra opzioni diverse.

Che indubbiamente, come sostiene Plotino, in un primo momento produce ansia, inquietudine, incertezza. Ma che altrettanto indubbiamente è all’origine della infinita creatività umana, di cui nessun animale, pur beato nella sua incoscienza, sarà mai capace.

Creatività che sarà poi capace di donare all’uomo che saprà goderne anche una quota parte di serenità e persino di gioia (perlomeno in certi momenti). Oltretutto di una misura e di una qualità, che a nessun animale sarà mai dato di sperimentare.

Per cui verrebbe da dire: beata inquietudine quella che deriva all’uomo dalla riflessione e dal linguaggio! beata inquietudine quella che nasce nell’uomo quando in lui compare il barlume della consapevolezza!

Giovanni Lamagna

Memento mori! Memento vivere!

25 maggio 2016

Memento mori! Memento vivere!

Da qualche anno, forse da quando non mi devo più alzare presto la mattina per andare a lavorare (sono da undici anni un insegnante in pensione), ho preso l’abitudine di svegliarmi nel cuore della notte, in genere verso le tre e mezza/quattro, come se il mio corpo avesse un orologio biologico incorporato.

La cosa mi risulta del tutto naturale e per nulla faticosa. Mi alzo come se dovesse iniziare la mia nuova giornata. Accendo i fornelli sotto la macchinetta del caffè (che ho provveduto a preparare la sera prima), bevo la mia prima tazzina (anzi la sorseggio) e mi sento subito arzillo, come se avessi dormito le mie normali otto ore.

A questo punto, anche approfittando del profondo silenzio che mi circonda, mi dedico alla mia attività preferita, che è quella della meditazione quotidiana.

Di solito scrivo qualche paginetta di diario (in cui annoto i fatti della giornata precedente e qualche riflessione che mi è stata da essi suscitata) e poi leggo qualche pagina di un libro (annotando, sempre sul diario, riflessioni , emozioni, sentimenti che ne scaturiscono).

Poi vado di nuovo a letto e riprendo a dormire, anche se, ovviamente, questo secondo sonno è molto più leggero del primo; è più un assopimento che un sonno.

E’ come se nel mio organismo, da qualche decina di anni in qua, fosse insorto un fatto nuovo: il mio sonno profondo (cosiddetto NREM) si è nettamente separato da quello leggero (cosiddetto REM), con un intervallo di veglia della durata di circa un’ora (a volte anche di più).

La cosa non mi crea nessun problema di natura fisiologica (per dire: nessun affaticamento), ma neanche di natura psicologica (tipo: ansia, nervosismo, mancanza di concentrazione…). La vivo come del tutto naturale. Anzi la più naturale e positiva per me, in questa fase della mia vita. Come se essa addirittura agevolasse in qualche modo la mia vitalità e creatività.

Ho associato spesso questa mia (relativamente) recente abitudine a quella dei monaci contemplativi (ad esempio, i trappisti), che anch’essi, per regola, si alzano nel cuore della notte e dedicano del tempo alla preghiera e alla contemplazione.

Credo che tra le due esperienze ci siano notevoli affinità. Sia quanto alla motivazione che quanto alla modalità.

La motivazione è quella di richiamare il corpo alla massima e costante vigilanza. Di limitare quindi il sonno allo stretto indispensabile, per dedicare il maggior tempo possibile alla veglia, secondo l’insegnamento evangelico “Vegliate e pregate in ogni momento” (Luca; 21, 36). Cioè alla veglia, alla presenza a se stessi, che è il bene primario dell’uomo, quello che lo caratterizza tra le varie specie animali.

La modalità è quello di esercitare, allenare, addestrare lo spirito meditativo e contemplativo. Esercizio i cui effetti torneranno utili poi nel corso della giornata, quando, al silenzio e alla stasi della notte, subentreranno le attività e molto probabilmente anche i rumori (spesso i frastuoni) del giorno pieno e, quindi, sarà più difficile mantenersi in uno stato meditativo e contemplativo.

Una differenza, però, (e non di poco conto) distingue il mio stato di veglia notturno da quello dei monaci contemplativi (o, almeno, da alcuni di essi, come appunto i trappisti).

Per questi, infatti, la sveglia notturna avviene quasi sotto l’incalzare di una frase che essi si ripetono continuamente tra di loro: “Memento mori” (“Ricordati che devi morire”).

La sveglia avviene, dunque, per recuperare una consapevolezza legata all’idea della morte, che il sonno ha momentaneamente assopito, attutito o, addirittura, rimosso.

Per me è l’esatto opposto. Io vengo svegliato quasi dall’urgenza di riprendere a vivere, di non sprecare il mio tempo (troppo tempo) nel sonno, di dedicare quanto più tempo è possibile alla vita.

Potrei dire che la frase che mi sveglia è l’esatto opposto di quella che sveglia i monaci trappisti, è il “Memento vivere” (“Ricordati di vivere”) di Goethe, ripresa più recentemente da Pierre Hadot.

E’ il desiderio di vivere che mi fa alzare. Non certo il pensiero di dover morire. Meno che mai il desiderio di morire. Come avviene forse per i monaci di cui prima (o, almeno, per alcuni di essi).

Giovanni Lamagna