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Sui concetti di laicismo e di illuminismo

Io mi considero un laico a tutto tondo. Per il quale la libertà di pensiero e della sua espressione è un valore sacro. Memore della celebre frase: “Non condivido le tue idee, ma darei la vita perché tu le possa affermare liberamente”.

Ma non penso che il laicismo sia sinonimo di supponenza e presunzione, tale da portarmi a considerare (per fare un esempio calzante con alcuni recenti avvenimenti) tutti coloro che hanno fede in Dio come dei poveri diavoli, ai quali sia normale mancare continuamente di rispetto per la loro “superstiziosa ignoranza”.

Ora – sia chiaro- con queste mie affermazioni non voglio giustificare affatto (anzi li condanno senza se e senza ma; e penso che vadano perseguiti e puniti severamente dalla legge i loro autori) le quattro uccisioni avvenute in questi ultimi giorni in Francia da parte di alcuni fanatici islamici.

Credo, però, che vada compreso – proprio in nome di una laica e quindi direi scientifica razionalità – il contesto nel quale esse sono avvenute, se non si vuole ulteriormente avvelenare il clima dei rapporti tra culture ed etnie diverse e favorire così il ripetersi di altri episodi criminali simili.

Da questo punto di vista ritengo sia un dato obiettivo (difficilmente controvertibile) che una certa supponenza laica (presunta illuminista, in realtà stupida perché – se non intollerante – quanto meno inopportuna) le abbia in qualche modo oggettivamente provocate (nel senso letterale del termine: di “chiamate a sé”).

Chi non si rende conto che determinate sue affermazioni, fossero pure perfettamente razionali e irreprensibili sul piano del costume e della morale occidentale, sono invece inopportune e fuori luogo (anche in società laiche e non confessionali come le nostre), perché poco rispettose di una cultura altra, non è un vero illuminista, ma solo uno sciocco, perché presuntuoso, irresponsabile.

Una cosa è argomentare e criticare anche severamente le idee diverse dalle nostre (e questo è “illuminismo”, sano e del tutto legittimo, anzi sacrosanto), altra cosa è disprezzare e irridere le idee diverse dalle nostre, fosse pure utilizzando “l’arma” della satira (e questo, almeno per me, è il contrario dell’illuminismo, perché è una forma di intolleranza speculare, anche se opposta, a quella che si vuole criticare).

© Giovanni Lamagna

Pregiudizio e realtà.

11 agosto 2016

Pregiudizio e realtà.

Due giorni fa mi è capitato un episodio curioso che mi sembra opportuno raccontare in questo mio diario ferragostano.

Stavo facendo la mia passeggiata pomeridiana. Mi ero inoltrato a passo svelto lungo una strada in pendenza e piuttosto solitaria (solo di tanto in tanto qualche automobile, qualche raro passeggiatore, più spesso un ciclista). Godevo dell’aria dolce, calda e allo stesso tempo frizzante, ricca di ossigeno, come la si trova (oramai) solo in montagna.

Ad un certo punto, mentre ero di ritorno, non so perché mi è venuta in mente la recente strage avvenuta in un paesino del nord della Francia, nella quale due giovani dichiaratisi dell’Isis hanno sgozzato un vecchio sacerdote, padre Jacques.

Avevo davanti agli occhi il volto dolce e mite di questo prete ed ho immaginato la situazione di orrore e perfino di umiliazione (pare lo abbiano costretto a invocare Allah prima di ammazzarlo) che il pover’uomo deve aver vissuto.

Mi è montato dentro un sentimento molto violento, quasi di odio, verso questi uomini fanatici e sprezzanti della vita: avrei voluto scrivere qualcosa e inveire, esprimere insomma la mia indignazione forte per tutta questa violenza che sta insanguinando da qualche tempo il mondo, in particolare l’Europa.

Quando ad un centinaio di metri di distanza vedo salire e venire verso di me un gruppetto di tre giovani neri, presumo africani. Mi colpisce la coincidenza tra i miei pensieri di odio e il fatto. Mi prende anzi un po’ di ansia. Irrazionale, convengo. Forse collegata ai sensi di colpa per l’aggressività appena provata.

Ma l’ansia, si sa, è un sentimento per sua natura istintivo, che solo fino ad un certo punto si può dominare. Nei fatti l’ansia, nonostante i miei tentativi di controllarla, aumentava a mano a mano che i tre giovani si avvicinavano. La situazione di perfetta solitudine in cui mi trovavo di certo non mi aiutava a lenirla. Ha toccato l’acme quando i tre giovani sono giunti a pochi passi da me.

“Ciao!”- mi hanno detto appena mi hanno incrociato, con semplicità e gentilezza, come fossero persone che conoscessi e avessi incontrato già altre volte. Poi hanno proseguito dritto nella direzione da cui provenivano, quindi in quella opposta alla mia.

Io, a mia volta, non ho potuto fare a meno di rispondere “Ciao!”.

In un attimo tutti i mie pregiudizi, paure, ansie e in fondo anche la stessa violenta aggressività che avevo provato pochi attimi prima si sono dissolti. Ne ero contento e allo stesso tempo un po’ imbarazzato.

Giovanni Lamagna

Recensione del film “Non sposate le mie figlie”

30 novembre 2015

Recensione al film “Non sposate le mie figlie”.

Ho appena visto un delizioso film francese “Non sposate le mie figlie” (2015) del regista Philippe de Chauveron.

E’ la classica commedia brillante: leggera, allegra, solare, che affronta però una tematica oltremodo seria e oltretutto tremendamente (anzi, alla luce di quanto è successo negli ultimissimi giorni, tragicamente) attuale: quella della immigrazione e della integrazione tra razze e culture diverse.

Il film ha la capacità di affrontare questa tematica (con tutti i pregiudizi, i tabù e le difficoltà ad essa connessa, senza rimuoverne e sottovalutarne nessuno) col piglio della favola e dell’umorismo, a voler dimostrare come problemi drammatici possono (o potrebbero) trovare soluzioni in grado di far bene a tutti: autoctoni/indigeni ed eteroctoni/immigrati.

E’ la storia di una famiglia della provincia francese, che vive in un paesino distante qualche decina di chilometri da Parigi, menage benestante (il capofamiglia è un ricco notaio), una villa molto grande e con un giardino molto bello e lussureggiante, mentalità borghese, benpensante, cattolica, anche piuttosto tradizionalista. Quattro figlie nate a pochi anni di distanza l’una dall’altra e tutte più o meno in età da marito.

Questa situazione, fin troppo tranquilla e serena, viene ad un certo punto sconvolta: la prima figlia vuole sposare un mussulmano. I genitori, che non sono per nulla preparati né tantomeno predisposti ad assorbire un colpo del genere, devono fare, dopo molte riluttanze, buon viso a cattivo gioco e ad un certo punto si adattano alla nuova situazione.

Gli equilibri in famiglia sembrano assestati, quando la seconda figlia porta in casa un ebreo e vuole sposarlo. Di nuovo la pace familiare ne risulta sconvolta, ma di nuovo i due coniugi assorbono il colpo: accettano, più o meno di buon grado, anche questo secondo genero.

Senonché la terza figlia arriva a turbare nuovamente i fragili equilibri appena ritrovati: presenta ai genitori un fidanzato cinese. Anche questa volta il notaio e la moglie accettano la situazione dopo aver parecchio riluttato.

L’armonia familiare sembra finalmente raggiunta: sono nati nel frattempo dei nipotini, che diventano la gioia dei nonni; i tre generi che prima litigavano continuamente, anche per delle banalità, adesso sono molto affiatati, sono diventati più che amici, si trattano come dei fratelli.

Questa armonia trova il suo acme durante un Natale, quando i coniugi Verneuil, le loro figlie e i tre generi trascorrono una meravigliosa giornata con la signora Marie Verneuil che ha cucinato il tacchino in tre maniere diverse, quella araba, quella ebrea e quella cinese, per fare cosa gradita ai suoi “amati” generi. E la cosa riscuote un grande successo, perché durante il pranzo i tre giovani assaggiano l’uno il tacchino degli altri due e sono in grado di apprezzarlo come il proprio. Addirittura a mezzanotte si recano tutti insieme nella chiesa cattolica del paesino e partecipano con grande devozione alla messa di Natale.

Il film sembra volare quindi verso un lietissimo fine, senza altri colpi di scena, quando anche la quarta figlia si innamora. E questa volta (era ora!) il fidanzato è cattolico. Dà la notizia ai genitori e questi esultano: finalmente un matrimonio come lo avevano sempre desiderato, nella loro amata chiesina di paese (di cui sono assidui frequentatori) e non nel “freddo” Municipio, come avevano fatto le altre tre figlie!

Senonché la storia riserba ancora una sorpresa, che sembra far saltare l’ultimo lieto fine: e qui il racconto del film diventa esilarante, nella migliore tradizione della commedia brillante.

Ma pure questa volta i pregiudizi e i tabù vengono (anche se faticosamente) superati. Il matrimonio dei due giovani fidanzati dopo mille imprevisti e contrattempi riesce finalmente a celebrarsi ed è una vera festa della tolleranza, anzi della integrazione tra culture e razze diverse.

Un film che, per le problematiche affrontate e per il modo in cui le tratta, forse solo in Francia poteva essere realizzato.

Proprio la Francia che oggi, in questi giorni, è sconvolta dal terrore che a questa tolleranza e a questa integrazione (pur con tutti i suoi limiti e le sue deficienze) vorrebbe opporsi in nome del fanatismo culturale e religioso.

Giovanni Lamagna