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Banalità, superficialità e presunzione.

Mi ritrovo talvolta a dire o scrivere cose che (ne sono perfettamente consapevole) sono (o dovrebbero essere) scontate; e, quindi, sono (o possono apparire) banali.

Perché lo faccio allora?

Perché osservo che il livello di consapevolezza di sé (almeno sui grandi numeri) è talmente basso e superficiale da rendere necessario (e si spera utile, almeno in qualche caso) ricordare cose che in sé sono oggettivamente scontate e, quindi, banali.

Anche (anzi proprio) a coloro che con grande sufficienza, saccenteria e, perfino, ricorrendo all’ironia e al sarcasmo, ascoltandole o leggendole, (già lo so) le bolleranno immediatamente (e altrettanto superficialmente) come banali e scontate.

Come se per loro fossero davvero scontate e banali.

Cosa che – proprio a giudicare dalle loro reazioni – a me non sembra affatto.

© Giovanni Lamagna

Due bei film: “Domani è un altro giorno” e “Momenti di trascurabile felicità”.

Nelle ultime settimane mi è capitato di “recuperare” al cineforum due film, entrambi incentrati sul tema della morte: “Domani è un altro giorno” (2019; regia di Simone Spada) e “Momenti di trascurabile felicità” (2019; regia di Daniele Luchetti).

Mi sono entrambi piaciuti (soprattutto il primo) e perciò vorrei commentarli, per mettere a fuoco emozioni e pensieri che mi sono stati provocati dalla loro visione. Mi piace farlo poi nel giorno in cui, per antica tradizione, si commemorano i morti.

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Recensione del film “Domani è un altro giorno”.

Il film racconta la storia di Giuliano, attore romano, esuberante ed estroverso, di mezza età (interprete Marco Giallini), che da un anno combatte con un male incurabile: gli restano oramai poche settimane di vita.

L’amico di una vita, Tommaso, ombroso ed introverso (interprete Valerio Mastandrea), quando lo viene a sapere, si precipita a Roma dal Canada, dove vive e lavora da tempo, per trascorrere quattro giorni assieme a Giuliano.

Il tempo di tentare di convincere l’amico a intraprendere un’ultima disperata chemioterapia, che potrà allungargli l’esistenza, ma solo di poco. Giuliano rifiuta con decisione: ha già lottato abbastanza e non se la sente più.

Il film racconta i quattro giorni nei quali i due amici in pratica si danno l’estremo saluto. Potrebbero essere giorni tristi. E senz’altro lo sono, velati come sono di intensa e commovente malinconia.

Ma i due amici, abituati ad un rapporto di grande confidenza e familiarità, di grande ironia e ilarità, fatto di continui sfottò reciproci, perfino di duro sarcasmo, non si rassegnano alla cupezza.

Vivono gli ultimi istanti del loro rapporto, prima di salutarsi definitivamente, in un clima di grande tenerezza, che in certi attimi fa sbocciare addirittura l’allegria, la gioia di essersi incontrati, frequentati e di aver vissuto tanti bei momenti assieme.

Il film, insomma, anche se racconta una vicenda su cui incombe l’ombra nera della morte, è un inno alla gioia della vita e ad una delle sue manifestazioni più luminose: l’amicizia.

Infine, è un vero e proprio elogio all’autodeterminazione del fine vita: questione oggi di estrema attualità.

Sembra dire: dopo che si è vissuta una esistenza tutto sommato serena e allegra, se non proprio felice, è giusto che ad ognuno di noi venga lasciata la libertà di decidere le terapie da affrontare o non affrontare, di decidere i tempi e i modi della propria morte.

Questo ad evitare che gli ultimi giorni della nostra esistenza si trasformino in una lenta e atroce agonia, che offuscherebbe penosamente l’allegria e la serenità che ci hanno magari caratterizzato per una intera vita. Quale ne sarebbe il senso?

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Recensione del film “Momenti di trascurabile felicità”.

Questo film ha in comune con il primo il tema della morte. Anche qui la morte incombe. Si può addirittura dire ne sia la protagonista.

Ma mentre nel film di Simone Spada la morte è una minaccia ben reale, qui (anche se solo alla fine) si rivela come una minaccia solo immaginata, quasi sognata.

Ben reale, però. Al punto da far intravedere al protagonista del film, Paolo (interpretato da Pif) un altro modo di vivere la propria vita, un’altra scala di valori.

Anche qui, insomma, come nel film precedente, la morte è vista e raccontata quasi in funzione della vita, come un fatto, una realtà, che possono darci uno sguardo nuovo e (si potrebbe dire anche) più sano sulla vita.

Paolo è un ingegnere palermitano, quarantenne, sposato con due figli.

Vive una vita abbastanza distratta, tutta presa dal lavoro, dagli amici con i quali cazzeggia al bar, dalle numerose e farfallanti avventure extraconiugali e dal brivido del rischio: quello di passare col rosso, a bordo del suo motorino, proprio nell’attimo (fatto di decimi di secondo) in cui è rosso per lui, ma è ancora rosso per i veicoli che provengono dalla strada trasversale alla sua.

Un giorno, mentre fa il suo solito attraversamento spericolato, evidentemente sbaglia i tempi per una frazione di secondo e viene investito da un grosso autoveicolo. Si ritrova in Paradiso, dove però, in base ad un algoritmo calcolato da uno degli angeli (interpretato da Renato Carpentieri), che selezionano gli accessi, si scopre che egli ha diritto ancora ad un’ora e mezza di vita sulla terra.

Paolo, allora, ridiscende sulla terra per viversi il pochissimo tempo che ancora gli resta come uomo vivo. E qui il film diventa il racconto, tra il serio e il faceto, di come la vita di una persona, sotto lo sguardo consapevole del destino che tutti ci attende, prima o poi, cioè la morte, possa totalmente, radicalmente cambiare.

Paolo si rende conto di quanto la sua vita sia stata fino ad allora estremamente superficiale, di quanto narcisismo abbia dominato i suoi comportamenti di maschio italiano, per giunta siculo, di quanto poco tempo ed attenzione abbia dedicato alla moglie (interpretata da Thony) e ai suoi due figli, cioè ai suoi affetti più veri.

Insomma si rende conto che la vita (e potremmo dire ciò che poi in fondo le dà senso) è fatta di tanti momenti che, quando li viviamo, ci appaiono magari insignificanti e quindi trascurabili, ma che, invece, vissuti alla luce di una maggiore consapevolezza potrebbero darci vera e autentica felicità.

E questa maggiore consapevolezza può venirci (è brutto e triste doverlo riconoscere, ma è anche la realtà) può sopravvenire in noi se ci rendiamo conto che la nostra vita non è eterna, non ha un tempo infinito a sua disposizione, che essa è destinata a terminare prima o poi. Perché questo pensiero ridisegna immediatamente per noi (e senza neanche molto sforzo da parte nostra) la vera e giusta scala dei valori.

Insomma il pensiero della morte, lungi dall’incupirci, può aiutarci a vivere meglio, come accade a Paolo, il protagonista del film del regista Daniele Luchetti, che ne ha scritto anche la sceneggiatura, assieme a Francesco Piccolo, traendo spunto da un libretto omonimo dello scrittore casertano.

Film che nel primo tempo si muove leggero, quasi frivolo, figlio dello stile a volte insopportabile dello scrittore dalla cui opera trae spunto. Nel secondo, invece, decolla, diventa un po’ più serio e meno superficiale, fino a toccare, in qualche momento, persino la poesia.

Giovanni Lamagna

Recensione del film “E’ solo la fine del mondo” (2016).

Un film come questo (che è la trasposizione cinematografica di un soggetto teatrale omonimo di Jean Luc Lagarce) mette in risalto molto bene le differenze tra il cinema e il teatro.

In modo particolare una: il teatro è la drammaturgia dei corpi, il cinema è in primo luogo (anche se non solo) la drammaturgia dei volti. Il cinema coi primi piano può far recitare i volti molto più che il teatro, che fa recitare invece soprattutto i corpi nella loro interezza.

Molte scene del film sono sequenze (efficacissime e intense) di primi piano, attraverso i quali i personaggi-attori recitano con gli sguardi più che con le parole. Che sono perciò, specie in alcuni momenti, ridotte al minimo.

Il film, della cui regia è autore Xavier Dolan, alla sua sesta prova come regista, è giocato tutto su una dinamica familiare (una specie di “ritratto di famiglia in un interno”), brevissima, della durata di una sola giornata.

La brevità della vicenda ne accentua (ovviamente) l’intensità e la tonalità emotiva. Tutto ciò che i personaggi provano se lo devono dire e raccontare in un tempo che sanno molto breve e questo li mette (tutti) in uno stato di profonda ansietà. Per cui tutto il film sembra ansimare, come sotto il peso opprimente di un tempo che fugge.

Louis (Gaspard Ulliel), scrittore di successo, omosessuale, decide di tornare, dopo 12 anni di lontananza, nel suo paese natale e rivedere i suoi familiari più stretti: la madre, Martine (Nathalie Baye); il fratello maggiore, Antoine (Vincent Cassel); la sorella minore, Suzanne (Lea Seydoux) e la moglie di Antoine, Catherine, (Marion Cotillard).

Nessuno di questi capisce il vero motivo della venuta di Louis, dopo tanti anni di lontananza. E, infatti, tutti ne sono un po’ meravigliati, sorpresi.

Nonostante questo, però la madre Martine, apparentemente svampita e superficiale, è felice, addirittura raggiante, per l’arrivo del figlio: gli ha preparato un bel pranzo domenicale, vuole che il figlio stia bene, a suo agio, nonostante la timidezza e la taciturnità, che lo affliggono da quando era bambino.

Martine, anzi, vorrebbe di più: vorrebbe che i tre fratelli e la nuora trovassero il modo di stare bene assieme, di riuscire a comunicare in maniera serena e affettuosa. Almeno per qualche ora.

Quelle che ci provano di più sono la sorella minore, Suzanne, e la cognata, Catherine.

Molto diverse per carattere e quindi nell’approccio a Louis: la prima nevrotica, strafatta, a volte dolce, a volte aggressiva, ma comunque estroversa ed espansiva; la seconda, timida e impacciata, un po’ svampita, ma tenera e desiderosa di contatto.

Chi, invece, (almeno apparentemente) non ci riesce proprio è Antoine, il fratello maggiore di Louis, il quale anche lui alterna momenti di ilarità e sarcasmo a feroci scatti di ira.

Di fronte alle avance comunicative di Louis reagisce in modo scorbutico, non gradisce il suo tono affettuoso, che deve sembrargli sdolcinato e inautentico. Sembra un uomo insofferente, arrabbiato, scontento, che scarica continuamente il suo disagio esistenziale (di cui non si comprendono bene le ragioni) su tutti i componenti della famiglia, demolendo puntualmente i loro tentativi di convivialità e conversazione.

Ad un certo punto del pranzo, Louis fa un tentativo per comunicare il motivo per cui è lì, per cui è tornato a casa (noi lo abbiamo già appreso da una telefonata fatta in precedenza, mentre era da solo, ad un amico). Vorrebbe dire ai suoi familiari che è gravemente ammalato e che gli restano poche settimane di vita.

Ma, a quel punto Antoine dà in escandescenze. Dice a Louis: “Ma quando devi partire? Tra poco? Allora preparati, dai, che ti accompagno all’aeroporto?”. Insomma fa di tutto perché il fratello non comunichi alla madre, alla sorella e alla moglie la tragica notizia.

La scena, raccontata così, non dice niente, sembra addirittura banale e ripetitiva delle altre che l’hanno preceduta. In realtà è bellissima, estremamente intensa, stracarica di emozioni, degna del miglior Almodovar.

Sembra che Antoine si stia comportando secondo il suo solito modo abituale di rompere tutto e tutti. In realtà si comprende chiarissimamente che egli sa, che Louis gli ha comunicato la notizia in precedenza, mentre erano usciti da soli a fare una passeggiata.

La sua sembra la solita scenata isterica a cui ci ha abituato per tutto il film. E Martine, Suzanne, Catherine, inconsapevoli, così la vivono. Invece questa volta le intenzioni di Antoine sono altre: egli, che soffre già di suo per il dolore che evidentemente gli ha procurato la notizia comunicatagli da Louis, vuole proteggere gli altri componenti della sua famiglia; vuole evitare loro lo stesso dolore.

E fa di tutto perché Louis non parli, vada via, senza dire niente della sua terribile malattia e vicina morte.

Le scene finali del film sono estremamente toccanti. Louis va via, viene abbracciato e baciato dalla mamma e dalla sorella con un saluto straziante. Con la cognata il saluto è quello di un sorriso apparentemente distante ma in realtà estremamente complice.

Ognuno dei tre sembra essere in qualche modo consapevole che quello è l’ultimo momento in cui vede Louis ancora vivo. E però ognuno di loro vive la situazione come è capace di farlo, in base alle sue forze e capacità: chi rimuovendo completamente il dolore (Martine e Suzanne), chi con grande e naturale empatia, Catherine.

Il film, che nel primo tempo si avvia incerto, timido come il carattere del suo protagonista, nel secondo decolla, prende il volo, fa scoppiare le emozioni e i sentimenti.

Una famiglia precaria, debole, fragile, come ce ne sono tante, si scopre alla fine unita, accomunata dal dolore e dall’affetto, che ognuno dei suoi componenti esprime come è nelle sue corde, nelle sue capacità.

E ognuno di loro ci sembra ricco di umanità. Perfino Antoine (uno splendido Vincent Cassel), che per un buon due terzi del film ci era apparso odioso. Ma che alla fine del film ci appare come il più sensibile e affettuoso dei fratelli.

Il film è per me bellissimo, perché è riuscito a rendere senza (troppa) retorica la complessità dei sentimenti dell’animo umano, la difficoltà a comunicare, ma anche le grandi risorse che hanno gli uomini per farlo, specie quando si trovano in una situazione nella quale li accomuna un dolore profondo.

Giovanni Lamagna