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Dialoghi attorno al volere e non volere

Tempo fa ho pubblicato su facebook un post che ha dato origine ad un dialogo con alcuni amici, dialogo che reputo di un qualche interesse. E per questo lo ripropongo.

Il post iniziale era il seguente:

Volere e non volere

Per quanto mi riguarda, per “volere il giusto” occorre (paradossalmente) non volere; occorre, cioè, sospendere la propria volontà; o, meglio, la volontà dell’Ego.

E affidarsi alla volontà dell’Alter-Ego, cioè del nostro “maestro interiore”, che ci ispirerà e suggerirà, momento per momento, cosa sarà giusto fare.

A seguire il dialogo che ne è scaturito.

P. R. : Il tuo è un modo ateistico di affidarsi a chi non si conosce, come fa il credente; due idealizzazioni distinte: una dentro me e l’altra fuor di me. È solo una questione di scelta, ma il risultato è identico.

Giovanni Lamagna: Nel mio caso io conosco bene chi è colui a cui mi affido, il mio “maestro interiore”.

E’ la sintesi, la sovrapposizione simbolica di tutti i maestri in carne ed ossa che ho conosciuto, incontrato nel corso della mia vita.

E’, dunque, esterno ed interno allo stesso tempo: un esterno che è diventato interno, interiore.

B. C. : Giovanni cosa ti fa supporre che il “maestro interiore” sia più giusto dell’Ego? E cosa intendi per Ego? L’io cosciente (e quindi anche senziente e volente) o qualche altra cosa?

G. L. : In questo caso per Ego intendo qualcosa che sta a metà tra l’ES freudiano e l’EGO sempre freudiano.

Qualcosa che non è più il puro istinto o la pura pulsione (l’Es freudiano), ma non è neanche la piena coscienza (l’Ego freudiano).

E’ qualcosa che ha preso consapevolezza della realtà, dei limiti che la realtà pone all’Es. E quindi è già coscienza, non è più inconscio.

Ma non ha ancora preso consapevolezza di quali sono tutte le sue potenzialità.

Queste, a mio avviso, non ce le rende consapevoli solo la realtà (che in molti casi, invece, tende a mortificare le nostre potenzialità), ma ce le fanno intravedere i Maestri, quando e se abbiamo la fortuna di incontrarli e riconoscerli (perché non basta solo incontrarli, bisogna pure riconoscerli come tali) nel corso della nostra vita.

L’insieme, la sovrapposizione simbolica (diciamo pure la sintesi di tutti questi Maestri in carne ed ossa), forma, costituisce dentro di noi una sorta di Maestro interiore, che è quello che io chiamo l’Alter Ego.

Che può guidarci con la sua saggezza, non facendoci appiattire semplicemente su ciò che chiamiamo (spesso un po’ troppo frettolosamente) “la realtà”. A questo “Maestro interiore” io affido la mia volontà.

Non certo per una sorta di fede religiosa, ma perché ho una fiducia, più volte confermata dall’esperienza, in lui.

Almeno fino a prova contraria. Fino a quando cioè un altro/nuovo maestro non metterà in discussione (ai miei occhi) gli insegnamenti del mio attuale “maestro interiore”. Cosa che segnerebbe (come a volte mi è successo in passato) una svolta nella mia vita.

B. C. :Allora nella tua topica abbiamo:

– l’ego freudiano (la piena coscienza),

– l’ego “lamagnano” (a metà tra l’ego freudiano e l’es freudiano)

– il super-io freudiano

– l’es freudiano

– l’alter-ego (il maestro interiore, sintesi di tutti gli altri ego)

Corretto? E’ una tua concezione originale o l’hai presa da qualche autore?

Rimane la mia domanda: cosa ti fa supporre che il maestro interiore sia il più saggio di tutti? Solo una “fiducia sperimentata”?

Giovanni Lamagna: La tua mi sembra una ricostruzione abbastanza corretta, nella quale mi riconosco abbastanza.

A parte la definizione dell’Ego freudiano come “piena coscienza”. Per me l’Ego freudiano è troppo appiattito sulla cosiddetta (presunta) “realtà”. E’ insomma più realista del Re.

Per me la “piena coscienza” è fatta anche degli insegnamenti dei Maestri, che mi hanno insegnato non solo a tener conto dei limiti della cruda realtà, ma anche delle sue (non sempre visibili ed esplicite) potenzialità.

No, questa mia “concezione” non l’ho presa da nessuna parte: è il frutto della mia esperienza e della mia riflessione.

Se poi, prima di me (come è probabile), altri sono arrivati alle stesse idee, non è da loro che ho ricavato le mie. Vuol dire che in questo caso ho sfondato, senza saperlo, delle porte già aperte.

Quanto alla tua ultima domanda: il “mio maestro interiore” è PER ME il più saggio di tutti, perché, se ritenessi che ce n’è un altro più saggio, ovviamente seguirei questo.

Non ho la pretesa, però, che sia il più saggio in assoluto, che cioè lo sia anche per gli altri: mi basta che lo sia PER ME.

In ogni caso la mia fiducia in lui (come già scrivevo prima) è sempre condizionata: la sottopongo a verifiche continue e mai definitive, valevoli cioè una volta e per sempre.

In altre parole, ho fiducia, ma allo stesso tempo sto all’erta e in un certo senso diffido. Anche di quello che considero il mio Maestro interiore. Dubito ergo sum!

© Giovanni Lamagna

Si può volere e non volere la stessa cosa?

31 agosto 2015

Si può volere e non volere la stessa cosa?

Certo! E’ quanto fa la maggior parte degli uomini. Che sono lacerati, divisi e non hanno mai lavorato su se stessi per ricomporre questa lacerazione.

Per cui desiderano una cosa e anche il contrario di questa cosa.

Desiderano una cosa e però allo stesso tempo se ne sentono in colpa. E allora la ricercano (se si tratta di un oggetto) o la fanno (se si tratta di un’azione), però mai con l’animo pieno, intero, bensì sempre con l’animo diviso, spezzato. Quindi senza tutta l’energia o la volontà che potrebbero metterci, se fossero interi, unificati.

Sono come degli autisti che guidano la loro macchina col freno a mano tirato: la macchina cammina, ma sotto sforzo, con fatica, non a pieno regime e col rischio di “rompersi”.

Quando si vive così, non è mai possibile sperimentare una gioia o un piacere pieni; c’è sempre un’ombra o un pensiero malvagio che li guasta, che li oscura.

Di questo spesso si è anche consapevoli (talvolta anche nel momento stesso in cui si agisce) o si diventa consapevoli (il più delle volte dopo aver fatto una certa esperienza).

E però non si fa nulla (o quasi nulla) per cambiare. In un certo senso si preferisce restare in questa zona di mezzo, che non consente di godere mai pienamente delle cose.

Scelte diverse, alternative, “radicali”, le scelte di chi vuole superare (o, almeno ci prova) la schizofrenia, la lacerazione di cui parlavo all’inizio, vengono giudicate drastiche o eccessive. Troppo radicali, appunto!

“Tu vuoi sempre troppo!” – si sente dire di solito colui che non ama restare nel guado e le cose le vuole vivere per intero, in maniera piena, senza (eccessive) divisioni e lacerazioni interiori.

Eppure è dimostrato che queste producono disagi, insoddisfazioni, frustrazioni, se non vere e proprie sofferenze.

Ma tra un piacere e una gioia pieni e i disagi, le insoddisfazioni, le frustrazioni, spesso sono questi secondi ad essere preferiti.

Mi chiedo: perché, come mai?

La risposta che mi viene è che questi ultimi ci consentono di assomigliare alla gran parte degli altri uomini, ci consentono di rimanere a contatto con la massa.

In questo caso in noi prevale “il desiderio di essere come tutti”, di cui parla Francesco Piccolo in un suo libro, che (non a caso) ha avuto molto successo.

La gioia, il piacere pieni, invece, esigono sempre che in qualche modo e misura ci allontaniamo dalla massa, che sperimentiamo (per qualche momento almeno e in qualche misura anche minima) la dimensione della solitudine.

Una solitudine non angosciante, ma una solitudine produttiva. Felice, appunto.

Ma che ai più fa paura, nei più genera ansia, a volte addirittura angoscia. E che quindi i più preferiscono evitare, anche a costo di rinunciare a piaceri, a gioie e, perfino talvolta, felicità, che sarebbero a portata di mano.

Giovanni Lamagna