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Legalità e giustizia.

Montaigne già alla fine del 1500 traccia in modo lapidario e direi definitivo un confine netto tra il concetto di legalità e quello di giustizia.

Che non collimano affatto, come il pensiero comune tende banalmente a ritenere, ma spesso confliggono.

Non sempre ciò che è legge è anche giusto, come non sempre ciò che è giusto è tradotto anche in legge.

Montaigne così scrive nel libro III, cap. XIII, a pag. 1004 dei suoi “Saggi”:

“Ora le leggi mantengono il loro credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. E’ il fondamento misterioso della loro autorità. Non ne hanno altri. E torna loro a vantaggio. Sono fatte spesso da gente sciocca. Più spesso da persone che, per odio dell’eguaglianza, mancano di equità. Ma sempre da uomini: autori vani e incerti. Non c’è nulla di così gravemente e largamente né così frequentemente fallace come le leggi.”

© Giovanni Lamagna

Due fatti che hanno allietato questo mio ultimo Natale

Quest’anno il mio Natale è stato particolarmente allietato, tra le altre cose belle di natura privata, da due fatti di natura pubblica: una notizia, per me molto bella, e una lettera, anch’essa molto bella.

La notizia è quella della sentenza di assoluzione piena, perché il fatto non costituisce reato, da parte della Corte di Assise di Milano, di Marco Cappato, l’esponente radicale imputato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani.

La notizia è per me molto bella, perché la sentenza, anche (anzi soprattutto) sulla scorta di un pronunciamento della Corte Costituzionale, stabilisce alcuni principii di grande civiltà giuridica e, ancor prima, di umanità:

1) il diritto all’autodeterminazione, cioè la libertà di decidere della propria morte, la libertà di scegliere di morire con dignità;

2) la possibilità, in determinate condizioni, di accompagnare un malato a morire senza che questo fatto costituisca un reato.

La grande commozione, con cui la sentenza è stata accolta nell’aula del tribunale, in modo particolare dalla ex fidanzata di Fabiano Antoniani, dagli avvocati di Cappato e dallo stesso pubblico ministero, che aveva chiesto l’assoluzione, Tiziano Siciliano, è stata ancora più tenera e intensa perché, qualche attimo prima, era giunta la notizia della morte della mamma dell’imputato, ricoverata da qualche giorno in ospedale a Milano.

Per questo i difensori avevano chiesto qualche minuto di pausa per permettere a Cappato di uscire dall’aula, dove è stato abbracciato e consolato dalla moglie. Poi, con gli occhi rossi, Cappato si era riseduto in prima fila per assistere al dibattimento. E, addirittura, aveva avuto la forza e la lucidità, di fare, prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, la seguente dichiarazione spontanea:

“In piena sintonia e assonanza con le motivazioni che avete prospettato rimettendovi alla Corte Costituzionale la mia è una motivazione di libertà, di diritto alla autodeterminazione individuale, naturalmente all’interno di determinate condizioni, è per questo che ho aiutato Fabiano”.

Insomma, una vicenda, che una volta tanto ristora lo spirito, invece che deprimerlo!

La lettera è quella che Giuseppe (detto Beppe) Sala ha inviato al direttore de “la Repubblica” giusto alla vigilia di Natale, nella quale il sindaco di Milano “racconta” il suo rapporto con la religione.

E lo fa, a mio avviso, con toni molto sentiti, meditati e perciò convincenti, senza enfasi e retorica, ma con umiltà e assenza di ostentazione, confessando la gioia e, allo stesso tempo, il dolore del suo essere cristiano. Cristiano e divorziato, perciò impedito a partecipare pienamente all’Eucarestia, facendo la “comunione”.

La riporto integralmente, perché ritengo sia meglio far parlare direttamente le sue parole, anziché commentarle:

Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.

Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.

La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.

Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.

Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.

Giovanni Lamagna