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Sul perdono

16 giugno 2015

Sul perdono.

Nel libro “Elogio dell’ombra”, Jorge Luis Borges rivisita la storia di Caino e Abele. Così scrive Borges:

Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele.

Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti.

I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono.

Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno.

Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome.

Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto.

Abele rispose: “Tu hai ucciso me, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima”.

“Ora so che mi hai perdonato davvero”, disse Caino, “perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di scordare”.

Abele disse lentamente: “È così. Finché dura il rimorso dura la colpa”.

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Questo testo di Borges mi stimola a riflettere sul significato del sostantivo “perdono” e del verbo “perdonare”.

Sappiamo tutti che cos’è il perdono. E’ l’atto o il sentimento con i quali io trascendo il mio livore, il mio rancore e, dunque, la mia aggressività. Naturali, spontanei, istintivi, nei confronti di qualcuno da cui ho subito un torto.

Il perdono è, dunque, un movimento di trasformazione, di elaborazione dei miei sentimenti “negativi”. Dopo aver perdonato, torno ad essere (in un certo senso) la persona che ero prima di ricevere il torto, come se quel torto non mi fosse mai stato fatto.

Da persona aggressiva e piena di livore torno ad essere in pace. Con me stessa e con la persona da cui ho subito il torto.

Il perdono è un atto e allo stesso tempo un sentimento tipicamente umano: gli animali non ne sono capaci. Richiede, infatti, la capacità di superare l’istinto, di elaborarlo e di trasformarlo nel suo contrario. In un certo senso è un sentimento e un atto contro natura; o che supera, trascende la natura.

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Questo è il perdono dal punto di vista del comportamento e degli stati d’animo che questa parola esprime.

Ma perché, per significare questo comportamento e questo stato d’animo, usiamo proprio questa parola?

Per dare una risposta a questa domanda, credo che (come sempre di fronte a domande simili) ci può aiutare l’etimologia.

Il sostantivo “perdono” e il verbo “perdonare” sono composti entrambi da un prefisso (“per”) e da una successiva parola (“dono”, nel caso del sostantivo, e “donare”, nel caso del verbo).

Questo risponde, a mio avviso, alla domanda che ci siamo posti.

Il “perdono” e il “perdonare” sono quell’atto e quell’azione che ci mettono nelle condizioni di poter continuare, anzi di poter riprendere a donare, cioè ad amare.

Prima di compiere l’atto e di provare il sentimento del perdono, il livore, il rancore, l’astio, l’aggressività per il torto subito ci impediscono di “donare” e, quindi, di amare.

Il flusso del “dono” tra me e la persona che mi ha fatto un torto si è interrotto.

La trasformazione dell’odio in amore (col perdono) ci consente di riprendere la nostra capacità di donare. Di ristabilire il flusso interrotto.

Il perdono è, dunque, “per il dono”, per rendere possibile di nuovo il dono. Cioè di nuovo l’amore.

Giovanni Lamagna