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Amore angelicato, amore romantico e amore di amicizia

Voglio affrontare ancora una volta il tema dell’amore. In premessa dico subito che io non credo nell’amore romantico e, meno che mai, in quello che (almeno per alcuni aspetti) fu un suo precedente storico, l’amore angelicato, dei dolcestilnovisti e, in modo particolare, del suo massimo esponente, Dante Alighieri.

Non credo nell’amore angelicato per motivi che oggi risultano addirittura ovvi e quindi possono apparire persino banali: l’amore angelicato esalta la figura di una donna idealizzata, ridotta o elevata (a seconda del punto di vista col quale la si guardi) a puro spirito, quindi non più di natura umana, ma (appunto!) angelica.

Riduzione o elevazione che sono (in entrambi i casi) pure mistificazioni, in quanto la donna/angelo semplicemente non esiste ed è la pura proiezione di un sentimento del tutto sublimato, quindi disincarnato, “depurato” cioè della sua dimensione corporeo/sessuale, che la cultura dell’epoca evidentemente considerava di livello inferiore, se non addirittura del tutto spregevole.

E’ naturale che oggi, in un’epoca in cui c’è stata una larga e del tutto legittima, anzi necessaria, rivalutazione della corporeità e della sessualità (fino a raggiungere e superare, semmai, il limite opposto, con una esaltazione unilaterale ed esagerata di queste due ultime dimensioni) la concezione dell’amore angelicato appaia del tutto superata, insostenibile e non condivisibile.

Anche se permangono tuttavia, ancora oggi, singole persone e aree culturali, per quanto oramai largamente minoritarie e residuali, che continuano a sostenere e privilegiare un tale modo di sentire, pensare e vivere l’amore.

Io, tuttavia, come dicevo nell’introduzione, non condivido e difendo manco l’amore romantico, che invece ancora oggi trova miriadi di sostenitori, specie tra le donne e anche tra molti giovani, per i quali la rivoluzione dei costumi del ’68 pare non esserci mai stata e che rispetto a quella generazione sembrano aver preso le distanze, operando in qualche modo una cesura, se non proprio una regressione (almeno a mio giudizio) a modelli di sentire, di pensare e di comportarsi ad essa antecedenti.

Perché non condivido la concezione dell’amore romantico?

Innanzitutto perché non lo considero neanche vero e proprio amore. L’amore romantico è, infatti, piuttosto una forma di innamoramento. E l’innamoramento, come tutti sappiamo, è cosa ben diversa dall’amore vero e proprio.

E’, invece. una forma di infatuazione, che ci porta a stravedere per l’altro, ci fa vedere come attraverso una lente di ingrandimento i pregi e le qualità dell’altro e ce ne oscura (quasi) completamente i difetti e le mancanze: è, insomma, quasi una forma di allucinazione.

In secondo luogo (forse proprio perché è una forma di innamoramento e non di amore, di travisamento quasi allucinatorio della realtà e non di sentimento pienamente lucido e consapevole di sé) l’amore romantico tende a mettere la persona amata su una sorta di piedistallo, ad isolarla dal contesto degli altri rapporti, i quali – per chi vive appunto l’amore nella sua forma romantica – vengono quasi oscurati, messi del tutto in secondo piano.

E questo – lungi dal costituire un fatto positivo – provoca effetti negativi nella persona coinvolta in un tale tipo di amore, la quale è portata a togliere importanza ad altre realtà (ad esempio, il lavoro, i legami familiari, le amicizie, a volte perfino le amicizie più intime), a declassarle, quasi svalorizzarle e, quindi, a trascurarle.

La vita di una persona che vive un amore romantico ne è quindi in qualche modo sconvolta. E, a mio avviso, (quasi) mai in modo positivo, in un modo cioè che valorizzi la vita della persona coinvolta in questo tipo di amore, ne promuova in altri termini la crescita emotiva, affettiva, intellettuale, psicologica e spirituale in senso lato.

Qual è allora il tipo di “amore” in cui credo io? Io credo nell’amore che definirei “amore di amicizia”.

Di solito per amicizia noi intendiamo un legame più o meno profondo tra due persone, fatto innanzitutto di una istintiva consonanza emotiva, ovvero di empatia e simpatia, e poi di una condivisione di interessi, che possono andare dal gioco ai passatempi, dal tempo libero alle vacanze, dalla ricerca intellettuale agli ideali di natura spirituale: politici, filosofici, filantropici, religiosi…

Per amicizia non si intende (almeno nel modo di pensare comune) un legame in cui ci sia anche un’attrazione fisica e una pratica sessuale. Anzi è proprio questo il discrimine che di solito viene posto alla base della distinzione tra una “semplice” amicizia e quello che normalmente viene definito un amore.

Come se nell’amicizia non ci fosse un coinvolgimento emotivo, affettivo, intellettuale, spirituale, molto affine al rapporto che siamo soliti definire “d’amore”; e come se l’amore non fosse (a meno di non volerlo considerare fondato principalmente, se non esclusivamente, sull’attrazione sessuale) un legame molto affine all’amicizia.

Quando io parlo di “amore-amicizia” intendo allora, in primo luogo, superare la rigida divisione, che – nel sentire comune e da tempi immemorabili, che si perdono nella notte dei tempi – normalmente separa e distingue queste due forme di rapporto.

Intendo dire allora e con la massima chiarezza possibile che per me l’amicizia è una forma di amore e, soprattutto, che l’amore o è anche amicizia o è una ben povera cosa.

In secondo luogo intendo far scendere il rapporto d’amore da quel piedistallo su cui lo hanno messo diverse concezioni dell’amore che si sono succedute nel corso dei secoli, in primis le due che ho criticato nella prima parte di questa mia riflessione: l’amore angelicato e l’amore romantico.

Ed è questo forse l’aspetto più nuovo ed originale, anche se non del tutto nuovo e originalissimo del mio ragionamento, dal momento che qualche precedente storico comunque ce l’ha.

Questo deporre l’amore dal piedistallo non equivale affatto, però, – anche questo sia ben chiaro – ad una svalutazione del sentimento dell’amore.

L’amore per me è e resta (non dico un sentimento: perché – questo sì – sarebbe svalutarlo!) una dimensione dei rapporti nobilissima, apprezzabilissima e desiderabilissima.

Non è, però, – ed è questo che vorrei sottolineare – più nobile, apprezzabile e desiderabile di quanto lo sia l’amicizia.

Perché l’amore (anche quello che contempla la pratica del sesso) per me altro non è che una forma di amicizia, anzi è essenzialmente e in primo luogo un’amicizia. Un’amicizia che tra i vari e molteplici interessi condivisi ha anche quello erotico-sessuale.

Da questo punto di vista, allora, sono fermamente contrario all’idea dell’amore come rapporto esclusivo, monogamico, se non addirittura eterno; che vorrebbe essere un’esaltazione della peculiarità di questo tipo di rapporto, mentre ne rappresenta solo una gabbia, che lo imprigiona e ne limita le enormi, immense potenzialità. Per la crescita delle persone che ne sono coinvolte.

Io sono fermamente convinto, invece, che si possano vivere più amori in contemporanea, senza per questo far scadere l’amore a rapporto frivolo e banale, come pensano, invece, la maggioranza degli uomini e, soprattutto, delle donne.

Sono convinto che si possano vivere più amori in contemporanea, allo stesso modo di come si possono vivere più amicizie in contemporanea, senza rendere banali e frivole le amicizie; e questo nessuno lo contesta, anzi tutti lo danno per scontato.

Non riesco a capire perché nell’immaginario collettivo tutti gli interessi (da quelli più frivoli del gioco e dei passatempi a quelli più elevati degli ideali e delle visioni del mondo) possano essere condivisi legittimamente, senza la minima obiezione da parte di alcuno, in un rapporto di amicizia.

E, invece, non lo possa essere il sesso; come se il sesso fosse un “inter-esse” (letteralmente ciò che c’è, che passa, tra un soggetto e un altro soggetto) per sua natura “diverso”, “altro”, quindi strutturalmente e intrinsecamente monogamico, quando tutte le verifiche scientifiche sembrano semmai dirci esattamente il contrario.

La tesi che sostengo – quella dell’amore-amicizia – intende smontare questo preconcetto, questo stereotipo, e affermare la piena libertà dell’amore. In tutto “simile a” e in nulla “dissimile da” quella che vige nei rapporti di “semplice” amicizia.

Per questo arrivo alla conclusione che per me “amore” e “amicizia” pari sono, in fondo sono la stessa cosa: la loro natura profonda, la loro essenza sono identiche.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Paterson” di Jim Jarmusch.

Ieri sera ho visto al cineforum il film “Paterson” (2016) del regista statunitense Jim Jarmusch.

E’ la storia di un giovane uomo e allo stesso tempo di una piccola cittadina americana del New Jersey, che hanno (coincidenza?) lo stesso nome: Paterson. Come a voler dire che entrambi sono i protagonisti del film: il giovane uomo e la piccola città di provincia.

Paterson di mestiere fa l’autista di autobus. Ogni giorno si alza alle sei e mezzo per recarsi al lavoro.

Ogni giorno fa gli stessi gesti: appena sveglio bacia con tenerezza da innamorato la giovane (e bella) moglie, che resta ancora a dormire nel letto e che si sveglia per un solo attimo a salutarlo e a raccontargli qualche sogno appena fatto o in corso.

Poi fa colazione col solito latte e i soliti biscotti.

Quindi esce di casa (una povera casa monofamiliare con un po’ di giardino) e si reca a piedi al vicino deposito degli autobus dove inizia la sua giornata di lavoro.

Sull’autobus, mentre guida, vede ed osserva dallo specchietto retrovisore le persone più diverse (bambini, giovani, adulti, anziani…), ne ascolta attento e incuriosito i discorsi: questo gli rende varia la giornata pur nella sua (apparente) monotonia e ripetitività.

Quando torna a casa, lo trova ad attendere la moglie che è sempre piena di coccole e di attenzioni e che ha occupato il tempo in cui Paterson era fuori a riverniciare le porte e gli infissi, a cucire e sistemare le tende alle finestre, a preparare torte per il marito e dolcini che andrà poi a vendere al mercatino del sabato, a dipingere quadri, a suonare la chitarra.

Dopo cena, Paterson (sempre più o meno alla solita ora) esce di nuovo per accompagnare il cane a fare i bisogni e per passare qualche momento al bar, dove beve una birra (sempre la stessa, solita birra) e dove si ferma a scambiare poche parole con gli altri avventori (anche qui varia umanità) e soprattutto con l’anziano barista nero.

Con tutti Paterson è gentile, garbato, affettuoso, (quasi) quanto lo è con la moglie.

La sua sembra, dunque, una vita banale e insipida. E in effetti, esteriormente almeno, lo è.

Senonché c’è un quid che la rende, invece, meno banale di quello che appare, anzi la rende una vita, pur nella sua assoluta normalità, del tutto straordinaria: Paterson ama i libri di poesie (William Carlos Williams, Allen Gisberg, Dante Alighieri, Petrarca…), ne legge molta, ma soprattutto ne scrive.

Egli cammina sempre con un piccolo taccuino appresso e appena può annota versi. Soprattutto al mattino, sull’autobus, prima di metterlo in moto ed iniziare la sua giornata di lavoro.

I pochi versi che riesce a tracciare sul foglio bianco hanno qualcosa in comune con la chiavetta che mette in moto il mezzo su cui lavora: gli danno l’energia giusta per incominciare bene la giornata e il “carburante” necessario per proseguirla sereno.

Nelle sue poesie coglie gli aspetti quotidiani del vivere (una di esse, ad esempio, descrive una semplice, apparentemente banale, scatola di fiammiferi) ma anche l’amore, soprattutto quello per la giovane donna con cui vive e senza la quale – confessa – il suo cuore si spezzerebbe.

In questa sua passione trova complice la moglie, che ne apprezza l’estro, l’ispirazione, lo incoraggia a coltivarla e lo stimola a pubblicare le sue opere.

Una sera, però, (è sabato e i due giovani sposi si sono concessi una pizza e un film) tornati a casa trovano che il cane ha completamente sbriciolato con i denti il taccuino dove Paterson annotava le sue poesie.

Per i due giovani è un trauma enorme. Una parte di loro è andata perduta assieme a quel taccuino. Paterson non riesce a dormire tutta la notte. La mattina esce per distrarsi un po’. Si ferma seduto su una panchina dinanzi alla vista del ponte sulla cascata.

Quando viene raggiunto da un uomo sulla quarantina, un giapponese, che chiede il permesso di sedersi accanto a lui. Paterson, come al solito, è gentile, aperto e disponibile, pur senza smancerie.

Il giapponese gli racconta di sé: è un poeta venuto in città per approfondire la conoscenza del poeta locale William Carlos Williams.

Chiede a Paterson se anche lui è un poeta: evidentemente ha avvertito in lui una certa consonanza. Ma Paterson, intimidito, risponde che no, lui fa l’autista di autobus. E, però, il poeta giapponese, quando dopo un po’ lo saluta per andare via, gli lascia lo stesso in dono un quaderno bianco. Come a dirgli: sì, tu farai pure l’autista di bus, ma io so che tu sei un poeta.

Il film ha un andamento lento, molto lento, monotono, a tratti quasi noioso. Andamento chiaramente voluto, ricercato dall’autore, il quale voleva evidentemente rendere al massimo i ritmi della vita di una piccola città di provincia statunitense.

Ma questo è solo lo sfondo superficiale su cui si svolge la vicenda, che è incentrata sulla figura di Paterson e sui suoi rapporti con Laura (la moglie), con i colleghi di lavoro, con gli avventori del bar, con il poeta giapponese.

E in questa vicenda tre cose colpiscono molto, quasi brillano, luccicano, come stelle nel buio della notte.

La prima è la profonda serietà, concentrazione, quasi solennità con cui Paterson compie i suoi gesti quotidiani e ripetitivi, sempre gli stessi, ma ogni volta come se fossero nuovi.

La seconda è il profondo rispetto, la simpatia umana, in certi momenti perfino la compassione e la solidarietà con cui Paterson si approccia al prossimo che lo circonda, che lo avvicina o che gli parla: in primo luogo, ovviamente, la moglie Laura, ma anche il proprietario e gli avventori del bar che lui frequenta la sera (quasi fosse un tempio laico), le persone che ogni giorno trasporta col bus, la bambina che si ferma a parlare con lui (guarda caso!) di poesia, il collega che lo saluta ogni mattina prima che inizi il lavoro e con il quale scambia brevi ma significative parole, le persone che aiuta a scendere dal pullman costretto a fermarsi per un guasto all’impianto elettrico…

C’è qualcosa di religioso in questo contrasto ripetizione/sacralità dei gesti, anonimato/empatia, che ricorda in modo particolare l’Oriente. E non è un caso, a mio avviso, che la scena finale del film veda la presenza di un giapponese.

Cosa ci faceva un giapponese in una sperduta città di provincia americana? Con questa citazione, forse, il regista vuole dirci che anche a così grandi distanze culture così diverse possono incontrarsi e parlarsi, parlare lo stesso “linguaggio”.

La terza cosa, che in fondo in parte è compresa nelle prime due e in parte le spiega, è l’importanza della poesia. Che sublima la vita povera e perfino banale di Paterson, però anche la esprime.

E’ vero, infatti, che la vita di Paterson resterebbe povera e banale senza la poesia, ma è anche vero che da Paterson non potrebbe sprigionarsi poesia se la sua vita non fosse già poesia, quindi niente affatto povera e banale.

E anche qui non è un caso, a mio avviso, che i suoi componimenti poetici, al di là dello stile e della forma, evochino gli “haiku” giapponesi. Sono, infatti, componimenti che descrivono oggetti semplici, aspetti della natura e, soprattutto, accadimenti umani ordinari, quotidiani.

La scena finale dell’incontro col poeta giapponese, che pare riconoscere in Paterson un suo pari, un suo omologo, sembra dare conferma a questa mia lettura del film e del modo di essere e di vivere del suo protagonista.

Un bel film! A saperne cogliere la delicata e profonda poesia.

Giovanni Lamagna