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Heidegger, il problema del linguaggio e la ricerca dell’Essere.

Heidegger (non solo, ma soprattutto nel suo “In cammino verso il linguaggio”; 1959) fa tutta una serie di considerazioni (francamente molto fumose, allusive, suggestive, ma a mio modesto avviso di non grande valore speculativo) sul linguaggio, in buona sostanza per dire (io almeno così le leggo) che ci sono cose (io aggiungerei le cose fondamentali – fondamentali nel senso etimologico, cioè ontologico, del termine – su questo nostro stare al mondo) di cui non si può parlare, sulle quali al linguaggio (almeno al linguaggio filosofico) mancano le parole adatte.

Io concordo. Ma solo in parte. In quanto per me non è questione di linguaggio o, meglio, non è questione in primo luogo o solo di linguaggio (come sembra dire Heidegger in certi passaggi, tranne poi sostenere il contrario in altri), ma di limiti oggettivi, intrinseci, strutturali, del nostro potere conoscitivo.

Per cui mi pongo le seguenti domande radicali: non sarebbe meglio – a questo punto della storia della filosofia – abbandonare del tutto la ricerca in certi ambiti del pensiero filosofico classico? Non sarebbe meglio prendere atto definitivamente che in certi ambiti è stato detto oramai sostanzialmente tutto e che oltre una certa soglia non è possibile andare, che a certe domande non è possibile dare risposte?

Non sarebbe meglio a questo punto dedicarsi ad una ricerca – tutta psicologica e sociologica e magari politica – delle vie, delle pratiche più efficaci per campare il meglio possibile su questa terra, visto che bene o male, almeno la maggior parte di noi esseri umani su questa terra vogliamo continuare a restarci, che, nonostante tutti i suoi contro, le sue sofferenze e perfino le sue angosce, a questa vita, almeno la maggioranza di noi, siamo affezionati e che da essa non vogliamo distaccarci per nostra autonoma decisione, prima che il nostro destino di mortali si compia alfine e nostro malgrado?

Non sarebbe meglio da questo momento in poi dedicare almeno la gran parte della nostra ricerca filosofica alla “critica della ragione pratica” anziché alla “critica della ragion pura”, visto che questa ad un certo punto si arena, oltre una certa soglia non riesce ad andare, non trova le parole adatte?

E non per un problema semplicemente linguistico, ma semplicemente perché l’Essere, nel momento in cui si manifesta negli enti, si nasconde dietro gli enti e non si rivela mai nella sua nuda essenza. Non quindi (solo) per un problema di linguaggio, ma (soprattutto) per un problema di sostanza.

© Giovanni Lamagna

Nietzsche e Kant

Nietzsche porta alle estreme conseguenze “la critica della ragion pura” di Kant.

Kant sosteneva che a noi è dato conoscere solo i fenomeni che nascondono la cosa in sé, che resta a noi sconosciuta e inconoscibile.

Nietzsche afferma che non esiste alcuna “cosa in sé”, situata in un aldilà oltre le apparenze.

L’unica realtà esistente è quella nella quale ci troviamo a vivere qui ed ora.

© Giovanni Lamagna